Premio Lupiae 2014, vis a vis Scavran – Cassone e “la dea del mare” sorride

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La dea del mare

Lecce – Nella serata conclusiva del Premio Lupiae 2014, organizzato dall’Accademia della Nike e dal nostro web giornale Paisemiu, l’Open Space di Palazzo Carafa di Lecce, in Piazza Sant’Oronzo, è stato il palcoscenico della presentazione del libro “La dea del mare” di Massimiliano Cassone.

Ad intervistare l’autore del libro edito da Albatros è stato il sociologo e scrittore Ferdinando Scavran.

M. CassoneUn botta e risposta originale e mai banale tra due “cultori” della passione per la penna, un vis a vis tra due “artigiani delle parole”, un simpatico siparietto svoltosi di fronte ad un discreto numero di partecipanti.

Ecco di seguito domande e risposte che hanno circumnavigato il romanzo di Cassone.

Morte, vita, incuria, alcool, malattia, nostalgia, pianto, ricordo, rimpianto, rabbia, incoscienza. Quale sentimento è predominante nel romanzo?

Indubbiamente dico il “ricordo”. Un uomo può essere padrone del suo presente soltanto se è in grado di domare il passato e questo si può fare solo attraverso il ricordo. Ed è bello ogni tanto crogiolarsi nella nostalgia e nella malinconia; serve in seguito a capire ed apprezzare i momenti di serenità e felicità.

Le Lucky Strike, sigarette forti, trasgressive, bandiera di libertà e stravaganza, esorcizzano nel protagonista del romanzo il passato o il presente?

Le Lucky Strike sono le sigarette che ho fumato per tanti anni. Quel pacchetto morbido, quell’odore forte, quell’amaro in bocca che mi accarezzava i pensieri mentre si trasformavano in scrittura. E già, servono ad esorcizzare il passato.

Scrivere è liberarsi … Perché per Max la scrittura invece di liberare porta tristezza, pensieri, negatività?

No, per Max non significa negatività anzi, nel momento in cui si “riappropria” della sua vita ricomincia a scrivere perché capisce che può essere un appiglio per salvarsi. Ad un certo punto dopo la tragedia dell’incidente lui non abbandona soltanto la scrittura ma abbandona la vita, si lascia andare scivolando nell’apatia, non prova più nessuna emozione.

Un particolare che ha attirato la mia attenzione: l’amore come atto sessuale avviene con Anita senza una parola, e continua nel silenzio dell’amplesso di una notte. Parlarsi significava rovinare tutto?

In quel momento sì. Infatti la magia del loro incontro sbiadisce quando lui parla d’amore e lei gli chiede di ritornare con i piedi per terra; a volte amare è un bisogno primordiale da accontentare, da vivere. Come dice Umberto Galimberti: “Nasciamo nella follia e ci addomestichiamo alla ragione”. Ecco, amare è riuscire a regredire allo stato folle senza avere paura di farlo, e questo può accadere  grazie ad una persona che ti riporta indietro, facendo uscire quella parte animale che si consolida con l’atto fisico, per poi ritornare alla normalità; quella normalità che ci hanno insegnato. In quel momento per Anita, Max era soltanto il vettore. Era il suo Caronte verso il lido che desiderava solcare: il sesso.

Pessimismo che fuoriesce anche nei momenti di gioia estrema. L’animo non si quieta, vive e si crogiola nel proprio fallimento. Cosa serve allora al protagonista  per ricominciare a respirare?

Il protagonista ha bisogno della sua malinconia, è un pensatore, non riesce ad essere cinico, è caldo in petto, è un sognatore ma realista; crede nella magia del momento ma non può fare a meno di guardare in faccia la realtà. Uno dei mostri peggiori nella vita di un uomo è la realtà. L’amore comunque lo salverà.

Ogni rimando con una frase celebre a fine capitolo, appare quasi sempre una giustificazione a quello che si è letto. Serve spiegare a chi non ha capito?

È un dettaglio voluto e cercato non per spiegare il significato del capitolo ma per evidenziare che non c’è più nulla da “inventare”. È stato pensato e detto tutto, siamo noi ora, “gli artigiani delle parole” (non dico scrittori perché non vivendo economicamente di scrittura non mi considero tale) a dover ricucire, smontare e creare storie che servano a riflettere, ad emozionarsi e a rimettersi in discussione. Quella di mettere la citazione è la voglia di dire al lettore: LEGGETE, NON SOLO QUESTO MA ALTRO, PRIMA DI ME C’È STATO IL PARADISO.

“L’amore voluto, l’amore avuto, l’amore perduto, rubato, strappato dal fato”. Quanto vuole e come vuole amare Max?

Max ama, vive di cuore e non potrebbe essere altrimenti; è nel suo DNA e per poter amare si arrende anche ad un pregiudizio, butta giù un castello di convinzioni e si lascia andare alla seconda donna: Andrea.

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I sentimenti, gli sbalzi d’umore, le indecisioni, i tentennamenti, bucano l’animo di chiunque e scoprono verità che spesso siamo maestri nel nascondere. Perché Max si nasconde a se stesso?

Max non si nasconde a se stesso, Max si nasconde alla vita. Quando decide di lasciarsi andare trova un muro di gomma che si chiama Anita; è sintomatico il messaggio nella bottiglia, lui non crede a nulla e solo con una birra in più sprigiona la speranza che in lui si è assopita. Poi arriva la seconda donna Andrea e… il resto si scopre leggendo. Max incomincia a vivere grazie alla bambina e continuerà a farlo soltanto attraverso gli occhi dei suoi figli. La sofferenza lo ha anestetizzato al resto delle emozioni

Max si lava, si pulisce, si rasa. Crede che la pulizia del corpo implichi anche quella dell’anima… e se è così, cosa ha da pulire dentro?

Lui non ha nulla da pulirsi o ripulirsi dentro; il suo aspetto fisico è specchio di quello che non voleva più vivere di quello che gli era morto dentro. Il rasarsi tutto, compreso i capelli è sinonimo di chi ha il coraggio di farsi rivedere e di rivivere in un mondo che aveva abbandonato per sua scelta dopo la perdita della moglie e della madre.

Spesso le gesta delle due donne che ama, riconducono alle gesta che la madre gli riservava da bambino. È commemorare il passato o riportarlo prepotentemente al presente?

È la voglia di normalità, quella normalità a cui si era legato per superare la perdita del padre, è tutta una conseguenza come un domino; tutto accade di conseguenza.

Quanto è fondamentale la direzione del vento (calma tramontana che pulisce, scirocco inquieto ed agitato), la temperatura esterna, l’altezza delle donne protagoniste e soprattutto le lacrime che spesso scendono copiose?

La mia scrittura è molto descrittiva, ovvero mi impegno a donare al lettore una foto di ciò che i miei occhi vedono. È soltanto con la consapevolezza del “vero” che si possono gustare in positivo e in negativo le emozioni. Piangere per il protagonista è una liberazione e non ha paura di farlo. Le lacrime per molti uomini sono sinonimo di debolezza, ma ognuno di loro, anche il più duro, quando è sotto la doccia da solo e l’acqua scende prepotente non si sottrae alle proprie lacrime.

“Chi dice che è immorale amare due donne contemporaneamente, è uno che non ha mai amato”. E chi sceglie chi delle due amare di più, ha capito qualcosa dell’amore?

Un conto è amare e l’altro è capire l’amore. L’amore non si deve capire, ma si deve vivere, bisogna avere il coraggio di viverlo e a volte per poterlo fare bisogna scegliere. Amare due persone contemporaneamente è possibile. Succede nella vita di tanti… e non bisogna mai dire che è immorale; anche perché il termine immorale appartiene a chi ha poco coraggio per mettersi in gioco. Qualcuno prima di me ha detto che tutto ciò che è bello e buono o fa male o è immorale…

Tocchi l’amore nelle sue svariate tonalità: quello paterno, quello trasgressivo, quello ansioso, quello impossibile, quello platonico. Restituiscimi quello che più rispecchia la personalità di Max.

In questo momento della mia vita sicuramente l’amore paterno… Comunque io amo a 360°. Ad iniziare da me, perché come dice il buon caro Wilde: amare sé stessi è l’inizio di un idillio che durerà per sempre.

A chi lo dedichiamo e a chi lo indirizziamo questo romanzo?

Questo libro lo dedico a mia figlia che mi ha proiettato in un mondo nuovo, mi ha regalato l’immortalità scaraventandomi nell’infinito delle emozioni. Spero che un giorno attraverso il mio umile scritto capisca che la diversità non esiste ma sta solo negli occhi di chi guarda. La diversità è un limite di chi la vede.

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