Non aveva mai considerato la loro presenza fino a quel momento.
Quel palazzo le sembrava cupo come gli altri, silenzioso, quasi non fosse il recipiente di tante vite quante, in realtà, ne conteneva. Un condominio di quattro piani, senza balconi, senza fiori, senza luci, senza voci. Insomma, non il classico palazzo del Sud Italia cui lei era abituata, venendo dalla Sicilia. Lì era diverso.
Dal primo piano sentivi la ninna nanna cantata dalla mamma del bimbo del piano superiore, i movimenti delle famiglie al risveglio, la musica del ragazzino adolescente del terzo piano, le chiacchierate serali tra le vicine da un balcone all’altro.
Era un altro pianeta, Milano. Era un luogo per lei alieno e spento. Si affacciava al pianerottolo che dava nel cortile e non scorgeva la stessa luce nel cielo, non c’erano vicine di casa a parlare di ciò che avrebbero cucinato … Se si incontrava qualcuno per le scale ci si scambiava al massimo un apatico e sbrigativo “buongiorno”.
Non ritrovava sentimento in questa realtà, né casa, e ciò che le rimaneva era solo una profonda sensazione di solitudine e nostalgia. Milano le sembrava al contempo bella e spettrale, così grande e dispersiva, così triste nel suo splendore, così attiva seppur meccanica.
In verità, era conscia di vedere del grigio ovunque perché tutto è riflesso dell’anima, e lei sapeva che la sua anima fuggiva da qualcosa senza essere in grado di capire dove approdare e quanti danni avrebbe subito all’atterraggio. Era consapevole che scappare fisicamente da un luogo non l’avrebbe liberata dal dolore del suo cuore e della sua mente ma non trovava altre plausibili soluzioni a quello strazio, se non far le valigie e partire. Andare lontano per cercare un po’ di rumorosa solitudine e qualche nuovo stimolo.
E così, Milano.
Strade ampie e piene di gente, viali alberati che profumavano d’erba, flotte di studenti fuori dalle università, turisti ad affollare le piazze e le chiese, cani ai guinzagli dei padroni, venditori di ogni genere agli angoli delle vie e persone a chiedere l’elemosina.
Come lei, che aveva elemosinato attenzioni ed amore a qualcuno che l’aveva abbandonata senza darle spiegazioni, senza farle una carezza o stringerla a sé, senza preoccuparsene nemmeno per un secondo. Lei continuava a non crederci, non poteva pensare davvero che lui fosse incapace di amare, di avere delle emozioni, di provare anche solo una minima dose di compassione. Eppure doveva convincersene e così si concentrò con tutta sé stessa sullo studio, sul lavoro, sugli affetti più cari, sul dovere.
Passò un lungo anno in quel di Milano, ed iniziò a sentirla un po’ sua. Aveva il suo bar di fiducia dove il barista ogni giorno, alla stessa ora, le faceva trovare il solito caffè macchiato con latte di soia, il tabaccaio che in automatico le passava le sigarette, la pizzeria che conosceva alla perfezione i suoi gusti. Incontrava di tanto in tanto degli amici nell’androne del pub sotto casa e trascorreva interi pomeriggi a parlar con loro di politica, alimentazione, lavoro, musica.
Sentiva di aver creato uno spazietto anche suo ed era triste all’idea di dover andar via, prima o poi, in cerca di fortuna o di lavoro.
E poi quel palazzo. La sua gente. Sua? Non aveva mai considerato la loro presenza fino a quel momento. Eppure erano tutti lì.
La signora del piano terra che usciva presto la mattina e accarezzava il cane che, fedele, la aspettava ogni giorno sull’uscio della porta; la mamma single e sua figlia lì, al primo piano, i ragazzi poco più che ventenni che vivevano nella mansarda e che, una volta ogni tanto, organizzavano rimpatriate di amici con, come compagnia, la musica in sottofondo e poco più.
E poi Fernando, il suo dirimpettaio, un ragazzo straniero in Italia da anni, di una cultura disarmante e di ottima compagnia. L’aveva conosciuto una sera, per caso, sotto casa e lui l’aveva invitata a bere una birra. Quella sera avevano parlato di ogni cosa, avevano condiviso parti delle loro vite racchiudendole in parole fluide, scorrevoli, curiose ed interessanti. Amavano entrambi la lettura dei grandi classici e dei gialli d’autore, amavano entrambi i viaggi, le culture del mondo, gli sport, lo studio della filosofia, la psicologia, l’arte, la fotografia, i bambini, la natura. Quando stavano insieme tutto sembrava naturale, spontaneo, leggero. Sembrava che il tempo volasse via in un batter d’occhio.
Forse si capivano così tanto perché anche lui usciva da una relazione che l’aveva ferito e gli aveva spezzato il cuore, senza che si potessero comprendere i perché di tutta quella sofferenza. Si dice che condividere un dolore con qualcuno che lo sappia riconoscere sia già di per sé il primo passo di un percorso di guarigione.
Ecco, passare dei momenti della sua giornata con lui la facevano sentire meglio.
Lui era sempre sorridente, sempre sicuro, sempre forte, così dolce da farle pensare che non conoscesse le ferite della vita, così sensibile da lasciarla senza fiato ogni volta che le raccontava le sue esperienze. Fernando era presente. Nel senso di “esserci” ed essere un dono.
Perché chi ti fa sorridere, chi ti ascolta, chi ti offre spontaneamente il proprio tempo è un regalo meraviglioso che la vita ti fa, e tu non puoi far altro che dirle “grazie”.
Non sapeva come sarebbe finita, se quel palazzo in quella città con quelle persone sarebbero diventati la sua vita per sempre, o se presto sarebbe partita alla volta di nuove avventure. Sapeva solo di non voler più scappare; sapeva di essere una persona fortunata e che il mondo le avrebbe offerto ancora tante altre emozionanti esperienze che avrebbe affrontato con una consapevolezza in più: la vita è troppo breve per non esser felice di tutto ciò che si ha.