I leccesi sognano? Pare di no! Naturalmente, è bene precisare che per leccesi si intendono gli abitanti della provincia di Lecce e non solo i residenti nel capoluogo. Ciò detto, va subito evidenziato che, sotto il profilo sociale, negli ultimi cinquanta anni, nell’immaginario collettivo leccese, il posto statale o in un istituto bancario appaiono l’Eldorado dell’esistenza: e qui la corsa è frenetica e compulsiva.
La moltitudine voleva appartenere alla fascia di protezione dello Stato, perché l’impiego pubblico appunto garantiva a questo la stabilità e l’invulnerabilità. E non importava al comune leccese l’amore per la propria terra, il riscatto individuale e collettivo. Forse perché deturpato nella memoria, ignorando che Terra d’Otranto era tra le più ricche ed internazionalizzate aree della nascente Italia; che i prodotti salentini in tale epoca venivano quotati alla Borsa di Londra; e che proprio Lecce veniva definita dai grandturisti una delle città più evolute d’Italia. E dopo un secolo, a partire dagli anni ’70, i leccesi cominciano a sognare la sistemazione. Una sistemazione che oggi, nella upper class salentina si è trasformata nell’emigrazione di lusso, di giovani agiati appunto, in cerca di lavori gratificanti ed evoluti a Roma, Milano, Parigi, Londra.
E nessuno sa perché nella nostra provincia il tasso di disoccupazione sia tra i più alti del Paese ed i contenuti culturali della nostra economia molto modesti. Il luogo comune è che si presenta come una terra povera. Una convinzione che stride forte con le dinamiche socio-economiche occidentali, dove proprio la terra non è un fattore rilevante per lo sviluppo economico ed il riscatto culturale. Un’idea che ignora completamente che siamo inseriti in un’economia, quella Occidentale, che ha per capitale funzionale la conoscenza e il sapere; che ha per dictat il life long learning. La “sistemazione leccese” invece, è intesa spesso come riposo e svago, garanzia economica e di felicità. Nelle fasce popolari, poi, tale quadro si tramuta nella penosa lotteria del “gratta e vinci” in cerca anche qui di riposo e svago appunto, garanzie economiche e di felicità per i fortunati.
Da questo quadro, naturalmente, prendono le distanze alcune individualità leccesi di grande spicco, alcuni capitani d’impresa. Per il passato, riferendosi ai primi del Novecento, valgono gli esempi di due sognatori come Guacci e Peluso: il primo, con le bambole e la cartapesta esportate sino a New York; il secondo con i suoi manufatti in cemento esportati in tutto il Mediterraneo. Per gli anni ’70 non si può non menzionare la Sirio: nascente industria automobilistica, facente capo ad un certo Candido di Maglie, che produceva vetture di lusso in competizione con la Ferrari e la Lamborghini. Un’industria che, per oscuri motivi, non decollò mai e cadde nella più becera dimenticanza, sebbene esistano ancora oggi i prototipi di quelle auto. Ma di capitani d’impresa di primo rilievo, il mondo leccese è costellato nelle varie epoche, scemando lo scenario negli ultimi decenni, dove spicca, però Filograna di Casarano, con la Filanto, la più grande industria europea di scarpe fino al 2002, data dell’adozione dell’Euro, che ne sancisce la fine.
Nel suo complesso è una società, quella leccese, che non sogna il suo riscatto, pur essendo orgogliosa del suo barocco, dei suoi monumenti, del suo mare. Non sogna perché priva del suo reale passato di area ricca e potente, capace e laboriosa; perché indolente di intercettare nelle sue intellighènzie i motivi, probabilmente ingiusti, attraverso i quali lo Stato l’ha relegata a regione di supporto economico allo sviluppo delle regioni settentrionali, soprattutto, in passato, come area fornitrice di risparmi e braccia per l’industria del Nord. E non solo. Uno Stato che ha pure instillato un senso di minorità, quasi sempre a detrimento dell’identità, anche a livello individuale. Ed oggi, le sofferenze ancora più acute nelle fasce di disoccupati, oramai preponderanti per la società leccese, dove i salentini non si vogliono vedere le storture di una politica che è in maniera surrettizia ha remato contro lo sviluppo locale. Da qui un meridionalismo ignorato, fatuo per i leccesi: gli è estraneo e gli intellettuali tacciono sotto il peso dell’impiego statale; uno Stato enorme e potente. I leccesi non sognano? Probabilmente non vogliono sognare. E ciò, anche se questo appare l’unico filo conduttore per il futuro, di una vita sociale soddisfacente.