Ego me absolvo. Amarsi un po’

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Buon 8 marzoNon è facile per niente. Sulle donne hanno scritto poeti, filosofi, scrittori, scribacchini, giornalisti, giornalai, cantautori, imbrattatori di muri, politicanti, killers, fascisti, nazisti, comunisti, idioti, servi della propaganda; e ogni genio possibile, ora più che mai, sui social network. Tutti, nessuno escluso. Chi con gentilezza e con grazia, chi con ovvietà. Pochi spunti originali. Appiattimento mediatico, frutto del pensiero unico. Di formatori approssimativi, distratti, assuefatti a cliché imposti senza violenza apparente.

Cliché subdoli e molto forti, al contrario. Pazienza, ci sono mali peggiori. Forse. Dunque, che cosa mai potrei aggiungere io? Vediamo. Per esempio, e per cominciare, che sono donna, e sono stata bambina ragazza figlia moglie e madre. Non è mica poco, per iniziare. Qualcosa provo a dire, e lo faccio articolando confusi pensieri a voce alta, condividendoli con voi. Magari nascerà una riflessione, o forse alla fine scopriremo di aver semplicemente canticchiato il ritornello di una nota canzonetta.

Conta la famiglia in cui si nasce, credo, e quanto questa abbia voglia di mettersi a disposizione di una figlia, di un figlio, che sono piccoli steli soggetti a troppe variabili nel percorso della vita. Quanto sia disponibile ad allargare le sue grandi braccia nel sostegno, nella chiarezza di messaggi ed esempi da fornire con generosità; allo stesso tempo è importante che il familismo riesca a non soffocare aspirazioni e destini, e che non impedisca aperture ed inclusioni. Della serie ci sono se hai bisogno di me, torna quando vuoi, presentami chi vuoi, ma cammina sulle tue gambe e fa buon viaggio, avendo ben in mente quel che ti ho insegnato (sperando che gli insegnamenti siano stati oggettivamente buoni!).

Conta la formazione seguita, le amicizie, il carattere, la visione della vita, gli obbiettivi prefissi, i sacrifici fatti per tentare di raggiungerli, la passione, la gioia, il dolore. Anche i libri letti, azzarderei. Poi, vediamo, potrei aggiungere che non mi è mai piaciuta la differenza di genere, non intesa nel senso categorico tracciato da una linea invalicabile, come quando da bambini, a scuola, segnavamo buoni e cattivi sulla lavagna nera. Non mi sono mai sentita diversa da un uomo nei sentimenti, detesto il termine ‘femminicidio’, perché già parte da presupposti mentali discriminanti; non amo la festa delle donne, gli stereotipi, i pregiudizi, la generalizzazione, l’aggressività, la violenza. Ma ho qualche dubbio anche sulla grandezza con cui alcune donne vivono la vita, sempre al di sopra di ogni misero sentimento, sempre pronte a compiere pietose scelte orientate alla giustificazione e al perdono degli uomini: nella mente, attraverso la voce e i gesti simbolici e pratici. Pure nella postura. Le vedi ingobbite, martiri, col volto smunto di chi è invecchiata precipitosamente, rattoppando strappi familiari e calzini. Tutto il peso delle ingiustizie del mondo sulle loro spalle da giganti o da uccellini, ma sempre forti! E un dipanarsi di parole recitate con l’espressione di chi compatisce. Lo capisco, cosa vuoi, è stressato dal lavoro, dal suo capo, dai colleghi. Oppure, che ne so, ha perso il padre durante l’adolescenza, mi ha dato qualche ceffone ma me lo sono meritato, mi ha tradita ma in fondo ama solo me, è stata lei, gli si è offerta e lui, poverino, che cosa doveva fare? Sempre buone e zitte a perdonare. Qualcuno potrebbe obiettare che è facile pontificare per le donne serene e fortunate, e fare filosofia da quattro soldi. Forse avrebbe ragione. Il fatto è che quelle madonne addolorate mi fanno male, le preferirei fiere.

Donne, dududù, che non conoscono la storia, e che la sera dell’otto marzo si buttano a capofitto su giovani aitanti che, vista la richiesta, si offrono a grappoli, compiacenti come oggetti di plastica, muscolosi, finti, tatuati e serviti su teatrini più o meno squallidi a mangiatrici fameliche e agguerrite. Che già la scena è tristemente devastante di suo. Ma anche coloro che le criticano, queste donne … Noiosissimi!  Che ne sanno di porte chiuse, risate di scherno, umiliazioni varie, lacrime ingoiate, rifiuti brucianti? E che, una donna non potrebbe aver voglia di giocare, di scherzare, di prendersi meno sul serio? Una bufala originale, quella che la donna nasce madre e muore santa, per definizione. La donna nasce essere vivente, come tutti a questo mondo. In paradiso no, Eva venne alla luce dalla costola di Adamo, ricordate? Ma lì il gomitolo si dipana con criteri diversi, lasciamo stare, evitiamoci ulteriori inimicizie.

La storia, il segreto è tutto lì. Sedute su una panchina, sfogliando pagine di parole scritte sui libri o raccontate da qualcuno, forse potremmo comprendere meglio. Ci sono state donne aguzzine, terroriste senza pietà, sfatiamolo questo mito. Nascere femmina non salva e non condanna. Donne immense, amanti eroiche, partigiane, sante. Madri coraggio. Madri assassine. Una vasta gamma che non può essere racchiusa in perimetri ristretti. Sapete quale elemento le ha accomunate, tutte? L’amore. Quello realizzato, quello rifiutato. Ci sono milioni di donne che ancora oggi, nel mondo, vivono esistenze terrificanti. Troppo duri ad essere soltanto spostati, i retaggi che hanno accompagnato l’evoluzione, e profondamente diversi a seconda della latitudine. Perciò mi fermo a quello che vedo, a quello che conosco, consapevole del mio maestoso limite. Parliamo di quello che vediamo.

Inutile negare che gli uomini hanno più forza fisica di noi. E ‘altro’. I machi, e che diamine! L’uomo che non deve chiedere (pausa), mai! E’ vecchia, lo so, ma non è poi così anacronistica. E che dove non arrivano con l’intelligenza e la sensibilità, sfruttano vigliaccamente forza fisica e ‘l’altro’ di cui sopra. Una sorta di tesoretto strapieno di principi di delirante maschilismo, che all’occorrenza sanno come utilizzare. All’interno delle case, sul lavoro, (con varie modalità), sulle strade puntellate di ragazze seminude e di tutti i colori, portate dal mare su gusci di barche, anime abbandonate nelle mani di sfruttatori noti o facilmente rintracciabili, ma che nessuno vuole rintracciare. Finanche al Governo, che ti aggiunge la regoletta ridicola delle ‘quote rosa’, zittisce il gregge, e delle donne se ne infischia altamente, come è ben noto. Si salvi chi può.

L’evidenza, purtroppo, spesso parla di morte, e sottace migliaia di situazioni di estrema criticità, celate dalla paura, dalla solitudine, dall’isolamento, dal bisogno, dalla disperazione, dal perbenismo, dall’ipocrisia. Ecco, dovremmo fermarci di tanto in tanto, noi donne. Guardarci allo specchio, e mirare contro le nostre insicurezze, le rughe, i sensi di colpa che ci sono stati gemelli alla nascita, scherzo poco simpatico di un maligno DNA. Ricordare i nostri sogni di rivoluzionare il mondo, ciascuna a modo proprio, quelli che facevamo negli anni della gioventù. Dovremmo sederci al tavolino di un bar con nostra figlia, bere un caffè, e raccontarle di quei sogni. Capire insieme se dove e perché hanno smesso di camminare. E aiutarla a che i suoi non si fermino mai. Invitare una donna che passa per caso a unirsi a noi. Regalarle un buongiorno, un sorriso. Dovremmo alzare la voce contro chi la alza con noi. Sarà poco fine, ma rende, e può valere come metafora. O almeno, non piegare la testa, trattenendo le lacrime. Capire che viviamo a prescindere da un ti amo negato, o roba del genere, amiche romantiche. Assolverci se un giorno, due tre, avremo voglia di non cucinare, di non andare in ufficio, di lasciare tutto e raggiungere il mare. E ridere di gusto, e sentirci felici semplicemente perché esistiamo.

* Articolo già pubblicato nel 2015 sulla versione cartacea del mensile turese IL PAESE