La recente rappresentazione del Manfred di George Byron con le musiche di scena di Robert Schumann (1848) per soli, coro, voci recitanti e orchestra del 22 novembre 2017 al Teatro Apollo di Lecce, a cura dell’Orchestra Sinfonica OLES diretta da Daniele Belardinelli, riporta alla memoria altre realizzazioni con due interpreti d’eccezione: Piero Bellugi e Carmelo Bene.
Dato singolare: entrambi i personaggi si caratterizzavano per il forte interesse e per una significativa considerazione verso le discipline artistiche praticate a vicenda.
Per il direttore d’orchestra fiorentino l’amore per il teatro probabilmente era nel suo DNA. Non è stata casuale la sua collaborazione con personaggi come, per esempio, Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Ugo Chiti e Duccio, uno dei suoi figli, il quale continuerà a coltivare questo amore facendone una professione con il Théâtre du Soleil.
Carmelo Bene ha sempre considerato il ruolo della musica molto importante e non è fortuito il suo sodalizio artistico con musicisti e compositori del Novecento come, per esempio, Gaetano Giani Luporini o Sylvano Bussotti.
Ritornando al Manfred del 1978, andato in scena al Teatro alla Scala di Milano (Bellugi aveva già diretto il poema drammatico all’Opera di Roma nel 1966 con Enrico Maria Salerno), più dell’attore originario di Campi Salentina, è d’obbligo evidenziare il dirigere con le mani, senza bacchetta.
Parliamo di un allora giovane musicista, poco più che trentenne, il quale aveva già diretto in importanti teatri del mondo, collaborato con grandi interpreti e compositori contemporanei e con una formazione musicale di tutto rispetto: studi al Conservatorio «Cherubini» di Firenze e all’Accademia Chigiana di Siena; perfezionamento al Mozarteum di Salisburgo con Igor Markevitch e al centro musicale di Tanglewood con Leonard Bernstein.
Già quest’ultimo aveva dichiarato che: «Se il direttore non usa una bacchetta, le sue mani devono fare il lavoro con uguale chiarezza. Ma bacchetta o non bacchetta, i suoi gesti devono essere innanzitutto e sempre significativi dal punto di vista della musica».
Come si può notare già in alcune clip su YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=WI81Uoget2U) relative all’edizione del 1979 con l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, oltre all’ espressione del viso, degli occhi, ecc. spesso l’inquadratura è focalizzata sulle mani del direttore incorniciate dal buio, quasi uniche protagoniste. Bellugi dirige senza bacchetta affinché possa avere più libertà e mezzi nel far cantare le voci e l’orchestra, lasciando libera l’espressività della recitazione di Bene, in questa occasione regista e attore.
Lo stesso Bellugi, in un’intervista sul «Corriere fiorentino» del 2012, riferisce che: «Era bravissimo [Bene]: non sapeva una nota di musica, e per fortuna non era legato a queste scansioni così regolari. Era come se volasse e io potevo dirigerlo come uno strumento musicale. Fu un bel periodo, avevamo altri progetti insieme, ma purtroppo morì troppo presto».
Se a prima vista i gesti del direttore possono sembrare quasi improvvisati, tuttavia la grande varietà dell’uso delle mani offre una ricchezza di comunicazione sorprendente.
La sua espressività semantica va oltre il significato codificato per i musicisti per diventare autentici gesti teatrali che si contrappuntano con l’espressività dell’attore salentino.
Quelle mani, a volte, sembrano spiccare il volo; in altri momenti alludono a dei ricami nell’aria, ricorrendo a posizioni e forme diverse. Il risultato che ne consegue è una duttilità e creatività sorprendente come si evince dalla stessa espressività delle singole dita.
In ogni articolazione si ravvisa ogni precisa e singola pulsazione ritmica così come un ben definito melos congiuntamente ad un fraseggio sempre cesellato e raffinato. A tratti le mani sembrano voler parlare e ogni gesto del direttore diventa parte significativa nel ricreare la partitura.
Quasi demiurgo, Bellugi interpreta la partitura schumanniana con una gestualità elegante e raffinata, sempre alla ricerca di quel sentimento autentico e di quel servizio incondizionato verso il compositore. Il risultato è simile ad una lettura filologica dell’opera, tanto da rappresentare ancora oggi un’interpretazione storica.
Incorniciate dal buio, sembrano mani che affondano nella notte per trasformare atmosfere oniriche di quel mondo fantastico byroniano restituendoci l’autentica intensità emozionale dell’opera.
Nella versione di questi due grandi interpreti il poema drammatico continua a sedurre per il suo multiforme carattere («of a very wild, metaphysical and inexplicable kind» secondo la stessa definizione di Byron) tutti coloro che gli si avvicinano, come era accaduto all’appena diciottenne Schumann, e come confermato dalla successiva ammirazione dello stesso Goethe.