«Il cantar suonando» del fagottista Raffaele Giannotti

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Raffaele Giannotti

Capita spesso di sentir parlare di giovani promesse nel campo concertistico, soprattutto se si suona uno strumento come il violino o il pianoforte.

Il fenomeno è meno frequente se si passa soprattutto ad altri strumenti come quelli a fiato.

Pertanto non meraviglia se, all’interno delle programmazioni artistiche anche di importanti teatri, di rado compare un concerto per strumento solista come, per esempio, il corno o il fagotto. Conseguenza di ciò sarà, naturalmente, il condizionamento della percezione del colore (timbro), oltre agli stessi gusti musicali degli appassionati di musica classica.

Perciò, se il riconoscere il suono del pianoforte non costituisce un problema, man mano che si passa a quelli meno noti l’individuazione rimane quasi un’esclusiva dei musicisti e di chi ha un orecchio educato.ù

Chissà che cosa avrebbero detto artisti come Kandinskij che del colore aveva trovato corrispondenze timbriche con i vari strumenti musicali o lo stesso Schönberg il quale componendo Farben (Colori) dall’op. 16 si proiettava verso la Klangfarbenmelodie (melodia di timbri).

Entrando in medias res parliamo del fagotto: uno strumento nato oltre quattro secoli fa, derivato dalla rinascimentale dulciana, entrambi presenti nel Syntagma Musicum Seu Sciagraphia (1620) di Michael Praetorius, che ben presto attirerà sempre più attenzione da parte dei compositori che dei costruttori. Tuttavia, ancora oggi, molte le persone che non conoscono questo strumento musicale a fiato della famiglia dei legni, attribuendo al sostantivo solo il significato di involucro.

Per gli appassionati di musica ricordiamo che già Vivaldi aveva compreso la versatilità e il virtuosismo che si poteva ottenere dal fagotto, componendo ben 39 concerti solistici.

Interessante la testimonianza di Charles de Brosses relativa alla musica del tempo e allo stesso Vivaldi che aveva insegnato nel Pio Ospedale della Pietà di Venezia, avallando la presenza del fagotto: «La musica eccezionale è quella degli Ospedali dove le “putte” cantano come gli angeli e suonano il violino, l’organo, l’oboe, il violoncello, il fagotto; insomma non c’è strumento che le spaventi».

Pertanto non è difficile immaginare, per tutta l’epoca barocca, la presenza di questo strumento, anche in varie formazioni cameristiche che orchestrali oltre che per la realizzazione del basso continuo; lo stesso Bach lo impiegherà sia nelle Cantate che nella Messa in si minore BWV 232.

Poi nel Classicismo il vero “gioiello” e banco di prova per tutti i fagottisti: il Concerto n. 1 in Si bemolle maggiore K 191 di W. A. Mozart dove convergono tutte le caratteristiche tecniche ed espressive dello strumento, non solo del suo tempo.

Inoltre, dal XVIII sec., per le sue peculiarità e per i miglioramenti tecnici, fu considerato sempre più “necessario”, trovandolo impiegato non solo nel grande repertorio sinfonico ma anche nel melodramma.

Famosa l’introduzione cantabile del fagotto, accompagnato dall’arpa, dal tono malinconico, prima dell’intonazione del tenore di «Una furtiva lacrima» nell’Elisir d’amore di Donizetti.

Strumento dal carattere vario e dal timbro nasale (per la presenza dell’ancia doppia), lo si trova facilmente impiegato in contesti espressivi con toni cantabili, pastorali, grotteschi, buffi, ecc. Altro esempio di cantabilità del fagotto, ora con tono lamentoso, si può ascoltare nel contrappunto alla parte del mezzosoprano nel Quid sum miser nella Messa da Requiem di Verdi del 1874.

Dalla fine dell’800 a tutto il ‘900 si evidenziano anche le innovazioni tecniche delle case costruttrici (la francese Buffet e la tedesca Heckel) e lo strumento raggiunge sempre più notorietà, tanto che gli stessi artisti non rinunciano a rappresentarlo nei loro lavori come, per esempio, in Degas con L’Orchestra dell’Opéra (1868-1869, Parigi, Musée d’Orsay) dove colloca in primo piano e al centro il suo amico fagottista Désiré Dihau.

Stravinskij in quella partitura considerata, per molto tempo, l’emblema della musica moderna, le Sacre du printemps, decise di affidare proprio al fagotto la triste melodia lituana che si ascolta all’inizio del balletto. Suonata in un registro sovracuto e così inedito fece infuriare lo stesso incredulo Saint-Saëns presente alla prima (29 maggio del 1913).

La sua versatilità inoltre lo porta ad essere impiegato come personaggio, ovvero il nonno brontolone e severo in Pierino e il lupo di Prokof’ev o ancora nell’ Apprenti sorcier di Dukas, conosciuto dal grande pubblico per il film Fantasia di Walt Disney.

Ormai l’interesse da parte dei compositori è sempre più vivo e non è un caso se lo stesso Malipiero si sia cimentato nello studio di questo strumento.

Poi con la musica contemporanea lo strumento approda a particolari tecniche e linguaggi come nella Sequenza XII (1995) di Berio fino alla sperimentazione nei suoni multipli, ricerca partita già dagli anni ’70, grazie al compositore Bartolozzi.

Ma al di là dei repertori, stili e linguaggi compositivi, c’è un particolare da non trascurare.

Per suonare il fagotto (ma anche gli altri strumenti) bisogna ispirarsi al canto e non sono poche le composizioni di musica contemporanea dove in alcuni contesti è richiesto di “cantare” all’interno dello strumento a fiato.

Ci avevano già pensato compositori e teorici del XVI secolo a ricordare che per suonare bene bisogna imitare la voce umana e lo stesso diffondersi di trattati che indicano l’articolazione della lingua, o l’illustrare i passaggi difficili, “diminuire” nelle cadenze, ecc. erano concepiti come «cosa utile per gli strumentisti affinché imitare la voce umana».

Poi, per noi italici del paese del melodramma, il canto fa parte del nostro DNA.

Ecco allora spiegarsi il successo di molti nostri connazionali in tutto il mondo come era già accaduto nel ‘700 con molti musicisti usciti dai Conservatori napoletani, molti dei quali provenienti dalla Puglia e attivi in molte corti europee.

Giannotti, per il suo brillante curriculum e per la sua musicalità, se fosse vissuto in quel periodo storico, sicuramente poteva essere un virtuoso di fagotto come i tanti virtuosi del tempo.

Classe 1995, con la musica nel sangue (padre oboista e sorella violinista), il giovane musicista a soli 13 anni supera il primo traguardo (il compimento inferiore degli studi) presso il Conservatorio della sua città, Lecce, ottenendo la votazione 10 e lode e lasciando sbalordita la commissione. Il maestro Stefano Audisio già professore di fagotto presso il Conservatorio “Tito Schipa” e d’orchestra presso l’Orchestra Rai di Roma era il commissario esterno.

Raggiunto per telefono, il maestro racconta che, sentendo suonare il piccolo Raffaele, colto da profonda commozione, scoppiò in pianto, aggiungendo: «sembrava che lo strumento suonasse da solo».

Poi il maestro riferisce al giovane musicista: «sei bravissimo; vincerai tutti i concorsi» e Raffaele: «no, maestro, lei è troppo gentile» evidenziando, nonostante la giovanissima età, piena consapevolezza di quanto fosse ancora lungo e difficile il percorso per raggiungere i grandi traguardi.

Le previsioni del maestro Audisio si concretizzano presto e soltanto due anni dopo, a 15 anni, Raffaele consegue il diploma in fagotto con lode e menzione d’onore presso il Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Torino. Poi, grazie ad una borsa di studio (De Sono, 2014), si perfeziona all’Universität für Musik und Darstellende Kunst di Vienna proiettandosi verso l’Olimpo accanto ai grandi interpreti.

Per conoscerlo meglio, eccolo attraverso la sua stessa presentazione in un’impeccabile pronuncia tedesca: https://www.youtube.com/watch?v=RfxZ_ZQjYIA.

Ripensando alle intuizioni del maestro Audisio, il giovanissimo Raffaele vince diversi concorsi nazionali e internazionali tra i quali ricordiamo: «Josef Windisch Prizes» di Vienna, ARD Music Competition Prize Winners 2013 di Monaco di Baviera, quello di Primo fagotto all’Orchestra del Maggio Fiorentino del 2014 e lo stesso presso i Münchner Philharmoniker (2016) a soli 21 anni, il premio Giovane Talento under 21 e il Bärenreiter Prize.

L’occasione per ascoltarlo come solista in Italia è stata il 21 luglio del 2016 nel Cortile di Palazzo Pitti con l’Orchestra del MAGGIO Musicale Fiorentino alla testa di Stefano Montanari nel Concerto in fa maggiore op. 75 per Fagotto e Orchestra, J. 127 di Carl Maria von Weber.

Continueremo a sentir parlare ancora per molto di questo giovane interprete per il servizio incondizionato verso la musica e per aver scelto di stare accanto ai “giganti”.

Questo racconto, oltre che presentare uno strumento ancora non molto conosciuto, vuole portare all’attenzione dei tanti giovani talentuosi che è possibile raggiungere i propri sogni, come è accaduto al giovanissimo Raffaele, investendo nella buona formazione, convinti che «non senza fatiga si giunge al fin».

Compositore, Direttore d’Orchestra, Flautista e Musicologo. Curioso verso ogni forma di sapere coltiva l’interesse per l’arte, la letteratura e il teatro, collaborando con alcune riviste e testate giornalistiche. Docente presso il Conservatorio di Perugia, membro della SIdM (Società Italiana di Musicologia), socio dell’Accademia Petrarca di Arezzo, dal 2015 ricopre l’incarico di Direttore artistico dell’Audioteca Poggiana dell’Accademia Valdarnese del Poggio (Montevarchi-Arezzo).

2 COMMENTI

  1. Articolo molto bello e ben costruito. Partendo dal parlare di un giovane musicista già proiettato nel palcoscenico internazionale, parla in maniera esaustiva, anche se necessariamente succinta, di uno strumento poco conosciuto, anche se essenziale nella musica.
    Un bel modo di coniugare cronaca e cultura.
    E.M.

  2. Mi piace molto il modo in cui scrivi, raccontando la musica intrecciata alla storia, all’arte, rendendo fruibile a tutti un argomento che altrimenti resterebbe appannaggio di pochi specialisti

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