Polivalenza sensoriale nel suono delle campane

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Il mondo intero è una grande composizione, della quale noi siamo allo stesso tempo compositori, interpreti ed ascoltatori (M. Schafer)


Scrivere intorno al suono delle campane non può prescindere dal pensare poetico, ai significati che lo stesso può trasmettere, congiuntamente alla contestualizzazione del paesaggio sonoro con rimandi al mondo interiore di ognuno.

Le loro vibrazioni, anche per chi è lontano dal paese natìo, evocano ricordi tanto che il pensiero, per dirla con il Pascoli, «sempre mi torna al cuore».

Segnalo pertanto l’interessante saggio di Antonio Politi: Le campane te Nòule all’interno del volume C’era una volta a Novoli religiosità popolare (2000, Società di Storia Patria per la Puglia, Parametro Editore), ove si descrivono segnali e funzioni delle campane attraverso un’attenta percezione dell’“orecchio locale”.

Non ci si deve stupire se, passando davanti ad un campanile di una chiesa, il loro suono può essere percepito come «voce che trasvola sul mondo, canto che piove dal cielo sulla terra» (D’Annunzio).

Il suono delle campane è stato un dono sceso dal cielo anche per i nostri nonni («Santa uce toa, Signore»), finché, con l’inquinamento acustico unito ad un ascolto distratto, la nostra percezione è cambiata.

Prima, in qualsiasi momento della giornata e nei contesti più diversi, il suono delle campane scandiva il tempo della Chiesa e quello del mercante (Le Goff); ora la fretta non lascia pensare neppure al concetto di vanitas, eludendo sia la percezione acustica ambientale che quella interiore.

Ma nel pànta rèi di eraclitania memoria, i suoni/rumori come il canto del gallo o una carrozza, sono via via scomparsi facendo spazio ad un nuovo paesaggio sonoro costituito da suonerie di smartphone o da traffico congestionato. Se per le vecchie generazioni resta il ricordo di «una memoria che ha goduto» (Balzac), alle nuove tocca l’enigma di un suono che ha bisogno di essere vissuto per traghettarci nel proprio mondo interiore.

Politi cita il vecchio adagio «Matonna mia te Nòule cu tritici campane, la notte fanne chioere e lu giurnu fanne scampare, cu bau alla sciurnata e cu me cattu lu pane», una sorta di invocazione alla Madonna del Pane (protettrice del paese, insieme a Sant’Antonio Abate) con l’indicazione numerica delle campane (13).

L’autore svela le note prodotte dalle campane delle chiese più importanti del Paese, traghettandoci così verso il “canto” di questi strumenti (idiofoni) che sembra superare quello dannunziano divenendo ‘suono materico’ per alcuni compositori.

Si pensi, per esempio, ad alcuni effetti evocativi presenti in Tosca alla fine dell’Atto I con il Te Deum o all’inizio del Terzo.

Le campane hanno ispirato poeti e scrittori come Leopardi, Manzoni, Carducci, fino a far ‘vibrare’ le corde di un musicista eclettico quale Gianandrea Gavazzeni, autore de Le campane di Bergamo (1963), testo appartenente al genere diaristico.

Una sensibilità estetica che si fonde con il desiderio di appropriarsi di una percezione quasi perduta la quale riaffiora nella poetica degli artisti, ma allo stesso tempo recupero di un suono portatore di cultura.

In questo crogiolo di evocazioni e cultura non deve stupire se il comune di Busseto nel 2013 ha avuto l’idea di dotarsi di un concerto di campane (carillon) per diffondere le musiche del suo più illustre concittadino (Verdi) o, rientrando nel Salento, se un compositore di musica sacra, Mons. Francesco Pellegrino (don Ciccio), si sia ispirato ad esse per comporre Il Carillon di Novoli Fantasia per Pianoforte su una canzoncina popolare eseguita da un carillon a 5 campane dall’orologio della torre del mio paese.

Convinti quanto questi strumenti arricchiscano l’esperienza percettiva e, ricordando Hemingway, consapevoli che le campane suonino anche per noi, lasciamo accarezzare il cuore dalle loro vibrazioni perché, oltre a rafforzare il senso di appartenenza ad una comunità, esse accompagnano verso il mistero della vita.