Marchionne, l’eredità di un pensatore alla guida del Lingotto

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Bandiere a mezz’asta al Lingotto, comunicati di cordoglio, consuete polemiche sterili, presentazioni dei conti trimestrali e crollo in borsa. Succede tutto in un giorno, succede tutto nel giorno dell’addio a Sergio Marchionne, ex amministratore delegato nonché padre e pensatore, a tutti gli effetti, di FCA.

Il C.d.A. di Fiat nominò a.d. l’allora cinquantaduenne Marchionne nel giugno del 2004, con una mossa che aveva l’aria del carattere emergenziale considerando le dimissioni del suo predecessore. Si trattava certamente di un manager di alto livello, ma non aveva un curriculum stellare e non era più giovanissimo. Fiat era sull’orlo del fallimento, i suoi prodotti automobilistici non avevano alcun appeal e persino General Motors, colosso statunitense, che possedeva il 20% delle sue azioni sperava che gli Agnelli non esercitassero il diritto di cedere il restante 80% del comparto azionistico al prezzo di mercato.

La prima grande mossa del manager chietino, trasferitosi in giovinezza in Canada dopo la morte del padre, fu quella di strappare 2 miliardi di dollari proprio al colosso americano facendo leva sulla paura dei suoi manager di dover sobbarcarsi l’azienda italiana.

L’ultimo modello prodotto dalla Fiat era la Stilo, design italiano elettronica tedesca, un vero e proprio fallimento nel mercato. Bisognava rilanciare l’automotive italiana e l’intuizione geniale fu quella più semplice ma meno banale: guardare ai fasti del passato ma in chiave moderna.

La nuova 500 è storia contemporanea. Esattamente come nel dopoguerra la 500 torna a rappresentare il simbolo dell’italianità del mondo. A questo modello, cui è legata maggiormente la figura di Marchionne, seguono quello della Panda, della Punto, della Tipo nonché il rilancio degli altri marchi del gruppo Fiat.

Ma la storia recente dell’ex a.d. di Fiat oltre a quanto sopra richiamato, dice anche dell’altro. Segna un altro colpo di genio, un capolavoro assoluto, l’acquisto di Chrisler ad un prezzo irrisorio, la nascita conseguente di FCA e la separazione dell’attività dei veicoli commerciali, industriali e agricoli in Cnh.

Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica, ogni scelta comporta una rinuncia e di rinunce anche dolorose ma nell’interesse aziendale, Marchionne, ne ha dovute fare. Non possono non ricordarsi gli accesi scontri sindacali, l’uscita da Confindustria, lo spostamento della sede legale in Olanda e di quella fiscale nel Regno Unito.

Se è vero che lo Stato italiano ha contribuito notevolmente in passato al sostegno della Fiat, bisogna altresì riconoscere la globalità di un mercato che non fa sconti. Marchionne ha agito nell’interesse dell’azienda di cui era dipendente, non aveva alcun mandato di rappresentanza conferito dal popolo italiano, e nonostante questo tenendo ben a mente le sue origini ha cercato di mantenere l’italianità della catena produttiva di svariati prodotti. I governi susseguitisi invece con più probabilità non hanno saputo creare le condizioni affinché il gruppo Fiat non delocalizzasse.

Ma queste considerazioni oggi sono chiacchiere che non possono giustificare gli svariati messaggi di giubilo per la dipartita di un uomo competente e preparato che ha saputo costruire la sua fortuna partendo dal basso.

Con il suo maglioncino che è divenuto ben presto suo segno distintivo, l’uomo Marchionne, si è andato a confrontare tanto con gli operai quanto con i capi di Stato. Ha lasciato trasparire nei suoi interventi oltre alle sue competenze professionali, un grande senso di umanità e carisma che ha fatto della sua persona oltre che un operatore economico, un vero e proprio pensatore dell’economia.

Sin da subito era stato in grado di cogliere l’importanza del ceto medio, che si va sempre più assottigliando, quale destinatario principe di buona parte dei prodotti Fiat.

Di Marchionne, dunque, al di là di ogni giudizio sull’operato ed oltre ai successi economici del gruppo FCA, divenuto il settimo gruppo automobilistico a livello mondiale, sarebbe bene conservare queste parole, pronunciate in LUISS il 27 agosto 2016, e che oggi più che mai suonano come un testamento per le generazioni future.

“Alla fine dei conti, il vero valore di un leader non si misura in base a ciò che ha ottenuto nel corso della sua carriera, ma piuttosto in base a ciò che ha dato. Non su quello che ha realizzato oggi, ma sull’eredità che si lascia alle spalle. Una lezione che ho imparato nel corso della mia carriera è che in ogni organizzazione le persone contano più dei processi. Soprattutto all’interno di una grande organizzazione multinazionale come la nostra, l’elemento più importante sono le relazioni umane, i milioni di rapporti personali che devono essere alimentati ogni giorno”.