Questa, la nostra, quella italiana appunto, è una società troppo ricca e, allo stesso tempo, troppo ignorante. Di un’ignoranza che si traduce in cattiva educazione ed incapacità di comprendere lo stesso valore della ricchezza. Una società che va dritta verso il suo autoannientamento, attraverso il populismo, che altro non è che l’espressione del cattivo gusto, dell’incapacità di vivere nella stessa società, e che si tradurrà presto – e giustamente – in totalitarismo.
Di tutto ciò, la colpa è dei ricchi: sono loro che non danno valore alla ricchezza, che interpretano come strumento della propria potenza, anziché come opportunità di creare un uomo più evoluto, un cittadino più evoluto, di incidere sulla società. Hanno dimenticato che la ricchezza e il potere sono degli strumenti non il fine.
Mi si dirà: ma la storia la fa Dio o la fanno gli uomini? Da Sant’Agostino a Leonardo da Vinci, col suo uomo vitruviano, è ragionevole pensare che la verità sia nel mezzo, e l’uomo italiano, che ha prodotto il Rinascimento, responsabile dunque, non è stato capace di andare oltre le determinazioni settecentesche, oltre il perseguimento della ricchezza e il benessere materiale, che, oggi – ed è sotto gli occhi di tutti – non sono più valori cui ispirarsi per la sopravvivenza della specie. In tale direzione, non è un caso che la società italiana è una società morente, ricca e morente, perché non si riproduce più.
E andremo verso il populismo e verso la dittatura in quanto incapaci di essere realmente autonomi. La libertà non è ancora patrimonio degli italiani poiché non la sanno gestire, si scompongono facilmente, ne abusano, producendo morte. La ricchezza, sì, la ricchezza non sappiamo gestirla, quella ricchezza che ci rende liberi, allo stesso tempo, ci ottunde le facoltà cognitive e che ci porta al turismo del nulla, “a staccare la spina” quando poi non è stata mai connessa.
La questione Renzi, la questione Benetton con Autostrade S.p.A. sono indicatori che i ricchi non sono degni della loro ricchezza, che utilizzano in sterili e vacui giochi di potere senza una visione, senza un orizzonte, senza un perché. E siamo alla fine, qui finisce la storia italiana, un’Italia distrutta dal suo stesso benessere perché poco intelligente e ripiegata in una cultura del potere fine a se stesso e proiettato nel nulla: una razza di secondo ordine che mai più trainerà la storia, perché non conosce il senso delle cose e, di conseguenza, il buon gusto, sebbene la sartoria sia eccellente. Ma ci vuole qualcosa in più di un sarto affinché la vita risplenda.
Bisogna andare oltre la simonia e il danaro per riorganizzare una cultura capace di dare slancio al nostro popolo, ripiegato su se stesso e sul brutto dell’esistenza. E l’impresa e lo Stato non devono essere considerati come mezzi per acquisire ricchezza e potere. Vanno renterpretati come strumenti per progettare la società, di crescita culturale, intesa nel senso della buona educazione al vivere felici, all’interno di un contesto di senso, e del buon gusto, all’interno del controllo di se stessi e della propria esistenza, dove si combatta l’espressione di ciò che è massificato e si coltivi l’esistenza come opera d’arte. In ciò, un modello cui ispirarsi per il prossimo futuro dovrebbe essere quello di Carmelo Bene, un salentino che aveva visto oltre le determinazioni settecentesche, cui sono fermi, ancora oggi, i nostri ricchi, i nostri politici, la nostra intellighenzia, ignari di tutto ciò e persino di se stessi.