Visti da vicino: Alberto Bevilacqua

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Alberto Bevilacqua! Chi era? L’affermato narratore, il poeta, il noto regista, il giornalista o tanto altro ancora? Possiamo, senza ombra di dubbio, affermare che era e resta letteratura nell’atto stesso di farsi, di accadere. Ad averci la fortuna di averlo conosciuto, ci si rendeva immediatamente conto che per Alberto non c’era differenza tra la letteratura e la vita perché le incarnava. Così, nel suo essere trovavano congiunzione: la prima smetteva di essere una cosa morta e lontana per diventare pulsante e reale, la seconda si trasformava nel contenitore vivente di ogni possibilità d’invenzione. Aveva una formidabile capacità di cogliere, in anticipo sui tempi, i nessi e le relazioni tra le cose, i fatti, gli stati emotivi individuali e collettivi, tale da giustificare le sue qualità sensitive, quasi medianiche, che erano soprattutto espressioni di una straordinaria intelligenza. Il suo più noto romanzo, La Califfa (Rizzoli 1964), che lo vide regista del film omonimo con Romy Scheider e Ugo Tognazzi, candidato a Cannes nel 1970, traccia la previsione di un Italia che sarebbe cambiata nei rapporti sociali ed economici, come poi è effettivamente accaduto. Il profetico poemetto “Essere Papa – Nuova Lettera ai Galati (Immagine e somiglianza), pubblicato sull’Osservatore Romano in occasione del settantacinquesimo compleanno di Paolo VI, suscitò un caso di larga risonanza. “Fui criticato, ma Paolo VI – diceva Alberto – in seguito, mi ringraziò!” – La sua forza intuitiva unita a una effervescente e variegata produzione, tutta di livello elevatissimo, trovava origine nella sua vulcanica vitalità e nella sua inarrestabile creatività.

La sua produzione è sterminata, perché sterminata era la sua voglia e la sua capacità di vivere intensamente, di osservare, leggere e interpretare l’esistenza. Aveva due occhi di un blu profondo, emanava una forte sensualità, era magnetico e sapeva di poter essere, quando lo voleva, molto affascinante. Di questa sua qualità si serviva meno di quanto si possa pensare con le donne, con le quali stabiliva un rapporto di privilegiata comprensione, grazie ad una spiccata sensibilità, una grazia innata, la capacità d’ascolto. Gli veniva, invece, immancabilmente in soccorso e ne faceva sapiente impiego di fronte alle platee pubbliche e televisive, dove i suoi interventi risultavano brillanti, incisivi e spesso determinanti, anche perché animati da un vibrante e gradevole sentimento dell’ironia. Sapeva essere spiritoso e non mancava di una certa intelligente allegria.

Non lo ricordo scontroso, anche se poteva esserlo, quando percepiva nell’interlocutore una meschinità di fondo, una cattiveria d’intenzione, ma sempre gentile e in genere accomodante. Il che non significava che, essendo un uomo profondamente libero e votato all’onestà interiore oltre che intellettuale, rinunciasse a affermare le proprie convinzioni. Non era uno scrittore compulsivo, no. Ma annotava mentalmente o a penna tutto quanto lo colpisse. Ed era ordinato, preciso, aveva le sue ritualità del mattino: Il caffè al bar, i giornali all’edicola della piazzetta di Vigna Clara. Li avrebbe letti seduto nella sua poltrona della sala, gustando il secondo caffè della giornata, prima di salire nel suo studio, nel superattico della sua casa romana. Lì smistava le telefonate e la posta e infine, dopo aver inserito la segreteria telefonica, si dedicava alla scrittura. Scendeva per pranzo e, salvo impegni, dedicava la seconda parte della giornata “al vivere”, come amava dire, e cioè a divertirsi, uscire, ridere, scherzare. Anche se da giovane – ricorda Indro Montanelli – era stato capace di scrivere “Una città in amore”, ritratto memorabile della sua Parma, nel bailamme della sala stampa di uno studio cinematografico. Mi piace che venga ricordato seduto al suo tavolo da lavoro, con le sue belle matite colorate ben allineate, i suoi sigari, la sua Olivetti Studio 44, di cui diceva: “Fa i capricci, ormai. Sa che sarà sostituita dal computer e si ribella. Anche gli oggetti hanno un’anima.”