Il termine dialettale pugliese “u’ ‘lattatore”, che in Valle d’Itria si può mettere a fattor comune, e che veniva utilizzato per identificare colui che si occupava di imbiancare “a calce” le mura della città vecchia, è senz’altro molto più efficace ed evocativo della voce corrispondente “imbianchino” che si trova sul dizionario della lingua italiana.
È un nome che non evoca soltanto il colore bianco, ma anche una sostanza fondamentale nell’alimentazione, quell’elemento vitale e primordiale, prodotto dalla stessa madre che nutre il neonato appena lo accoglie al mondo. E quando la madre non poteva allattare, una volta, non c’era il surrogato del latte in polvere a sopperire la mancanza di quello materno, ma il calore umano di una balia che collaborava con la genitrice nel prendersi cura del piccolo.
Nostalgia di un tempo andato e perso per sempre? Certamente il mondo cambia, oppure siamo noi che lo cambiamo mentre cambiamo noi stessi. Ma anche il prendersi cura delle mura della propria città, di quei baluardi che ci proteggono dalle intemperie e che rappresentano il rifugio del focolare domestico dal mondo esterno, dovrebbe esser un’attività scontata. Non tale da richiedere l’ordinanza dei Sindaci, come spesso accade, che invitano i cittadini a dipingere di bianco le mura del centro storico. Anzi, l’ordinanza vieta espressamente l’uso di un colore che sia diverso dal bianco della calce. E ce ne sono, purtroppo, palazzi e case antiche con le mura colorate.
A Martina Franca la facciata di Palazzo Ducale aveva addirittura assunto una strana colorazione rosea, e non era certo un bel biglietto da visita per una città che vuole fare del turismo un’arma vincente per riprendersi quel ruolo centrale che le spetta. Vero è che negli ultimi anni il centro storico martinese si era andato via via a svuotare, anche se attualmente c’è una lenta ma progressiva ripresa da parte anche di coppie giovani che tornano a popolare il centro storico. Meglio a Locorotondo e Cisternino, due tra i 279 borghi più belli d’Italia, piccoli centri storici della Valle d’Itria, insieme alla “favolosa” Alberobello, dove l’Altrove è nei pressi di casa.
Sono l’Italia nell’immaginario degli stranieri, caratterizzata dal creare, custodire, tramandare bellezza. E ognuno di noi ha, come Giacomo Leopardi, il suo natio borgo selvaggio, luogo in cui possiamo nasconderci, dove le urgenze del presente arretrano di fronte alla meraviglia della sera che scende in una piazzetta medievale, di un camminamento di ronda, di dolci colline di ulivi e cipressi. Qui non c’è fretta, non c’è impegno che tenga. Bisogna lasciarsi andare, vivere la lentezza, respirare il tempo che passa e sentire il profumo delle stagioni.
Tornando alla calce, la tradizione vuole che essa fosse un mezzo per combattere la morte nera, la peste maledetta che portava morte e distruzione. Adesso, grazie al cielo, questo pericolo non c’è più. E allora perché ostinarsi a voler tinteggiare le mura di bianco, si potrebbe obiettare? Perché c’è un’altra peste da combattere, più subdola e meno appariscente. È il pericolo di perdere per sempre la memoria storica che i nostri avi ci hanno tramandato nel tempo. Il bianco della calce non è soltanto indice di decoro e igiene. Anche, ma non solo. Il bianco della calce è il simbolo della laboriosità di un popolo che ha strappato alla terra dura e rocciosa i frutti con cui si è nutrito e ha costruito una società fiorente e orgogliosa. Una società fatta di lavoro e fatica, pur con le inevitabili contraddizioni che spesso sono affiorate nel corso della storia. L’un contro l’altri armati, realisti e repubblicani alla fine del diciottesimo secolo, krumiri e pipistrelli agli inizi del ventesimo, ma sempre accomunati dall’intento di rendere la città grande e inespugnabile dall’esterno.
Si parla tanto di pugliesità come condizione dello spirito. Ebbene, questo sentimento può anche essere la molla per riprendersi a piene mani quello che si rischia di perdere per incuria o indifferenza. Tempo fa, la domenica mattina una passeggiata per i vicoli del centro era un viaggio attraverso suoni familiari, odori di polpette sfrigolanti, panni stesi che sventolavano nel cielo racchiuso tra mura bianche profumate di pulito. Adesso è tutto un susseguirsi di case abbandonate, usci desolatamente sbarrati, attività commerciali storiche che hanno chiuso o rischiano di chiudere. Ebbene, quel bianco della calce sia un segno di rinnovata fiducia, di quella volontà di rialzare la testa e di riprendersi la città così come la vorremmo.