“Il cuore dei morti resta ai vivi”.
(Grazia Deledda – Canne al vento)
La nostra lunga storia di amicizia nacque in un giorno di ottobre del 1975. Lui era il papà di Maria Rosaria, la mia nuova compagna di scuola arrivata dalla Spagna, che quel pomeriggio mi invitò a fare i compiti con lei a casa sua.
Volevo già molto bene a quella bambina così garbata, così bella e intelligente che sapeva parlare in spagnolo come io in noulinu, e accettai l’invito, felice e grata.
Quando entrai in quella casa, mi sembrò di trovarmi in una favola. L’odore di legno buono che tappezzava le pareti mi accolse, intorno era un pullulare di libri e di foto, in un’altra stanza si intravedeva un pianoforte. Nel cuore della casa, in quel soggiorno che a me sembrò insolito e bizzarro, seduto di fronte ad una macchina da scrivere, c’era lui.
Babbo, lei è la mia amica Maria Rosaria.
Io, timida e imbarazzata, salutai.
Chi sei, chi sono i tuoi genitori?
Una forma gentile di chiedere “a ci appartieni”.
Vieni qui, raccontami.
Ci conoscemmo così, e così continuò quel nostro tempo. Casa loro diventò teatro di tante iniziative. Conobbi Arturo e Debora, gli altri due figli, e la signora Wilma Pellegrino, sua moglie. Lì facevamo le prove dei balletti che preparavamo per il teatrino parrocchiale, lì studiammo per gli esami di terza media, lì ascoltavamo la musica che è rimasta legata ai ricordi del cuore. E lui, che dopo 7 anni in cui aveva insegnato italiano in Spagna, era tornato alla scuola elementare del suo paese, lì rimase formando generazioni di bambini.
Ma, da vero istrione, non fu mai pago, nonostante il notevole impegno didattico. E di pari passo col suo lavoro, scrisse le sue numerose commedie dialettali, argute e sempreverdi, gli atti unici, le filastrocche, le poesie, le canzoni, grande eredità per la sua famiglia e per tutti i suoi concittadini, che hanno sempre ricambiato il suo amore. Sapeva suonare la fisarmonica, la chitarra, il pianoforte, aveva imparato da autodidatta. Sapeva cogliere ogni sfumatura di bellezza della vita.
Si dedicò alla formazione e alla direzione della Schola cantorum, un coro parrocchiale che visse e accompagnò per molti anni le funzioni religiose prima nella Chiesa Madre, Sant’Andrea Apostolo, e poi nella Parrocchia della Madonna del Pane.
Amava il mare e, a Porto Cesareo, trascorreva almeno tre mesi l’anno, in una casa altrettanto inclusiva come quella di Novoli, piena di gioventù, di idee, di fermento.
E amava viaggiare. Con la signora Wilma, girò davvero il mondo. Partecipò alla maratona di New York, visitò la Cina, l’Australia, la Norvegia, Capo Nord e tantissimi altri Paesi del mondo. La sua curiosità, la sua fame di conoscenza non si esaurivano mai. Intanto accompagnava nella formazione anche i suoi nipoti, che oggi lo onorano portando avanti le sue passioni, e riuscendoci molto bene. Uno per tutti: Mario, che porta il suo stesso nome, è autore di commedie dialettali di notevole successo.
La vita ci aveva fisicamente allontanati, ma io andavo a trovarlo ogni estate. Mi ricordo che una delle ultime volte che ci incontrammo era sul terrazzo della sua casa al mare. Lo chiamavo Mito, perché per me lo era davvero, e lui lo sapeva. Mito, da quanto tempo non ci vediamo!! Raccontami un po’ di cose belle! Eravamo sempre felici di ritrovarci, con le famiglie cresciute, i miei figli, i suoi nipoti. Amici da una vita, per tutta la vita.
Lui guardava l’orizzonte, sembrava sempre perso dietro un’idea geniale, l’organizzazione di un nuovo viaggio.
Ma non ti stanchi mai di girare il mondo, non hai paura di fare lunghissimi viaggi in aereo?
Ma scherzi, Maria Rosaria? Che paura devo avere, di morire forse? Ma magari! Morire volando, libero, e non nella corsia triste di un ospedale. Ma non pensiamoci, è ancora presto.
E riprendeva a sognare, nel suo luogo immaginario dove non c’era posto per i cattivi pensieri.
È morto 10 anni fa, l’8 di maggio.
Per tutti era il Professore Mario Teni.
Il mio Mito.