E’ come una spirale l’amore tra Matteo e Sofia, guarda in alto, e nel contempo una mano rivolta verso il basso, il segno romano del dito in giù che significa il contrario di “su evviva”, l’epilogo della vita di un uomo tra le sbarre che sconta un ergastolo ostativo.
Si intitola “Sofia aveva lunghi capelli”, il libro di Giuseppe Perrone (edito da Castelvecchi, pp. 248), con una nota introduttiva di Filippo La Porta. In poche righe il critico letterario sintetizza il messaggio della narrazione ponendo l’accento sull’umanità di quell’uomo, Matteo, che così rifletteva: “sguarnire un uomo della dignità è come smilitarizzare uno Stato”. Il romanzo, autobiografico, verte sul “pianeta” della detenzione sine die di Matteo che argomenta distinguendo il reo dal reato commesso. In sostanza sottintende come dovrebbe essere e invece non è il fare giustizia nell’accezione del termine, e invece ciò non accade sovente, come a lui è capitato di fare una diretta conoscenza di una ineccepibile inumana rieducazione da parte dello Stato.
Il vivere in un buio schiarito solo da qualche lucina sodale in cui macina la sua esistenza.
Ma la presenza, quella di sé stesso, è destinata ad elaborare di continuo i suoi vissuti. I tentativi di comunicare di costruire relazioni significative come Matteo fa inviando lettere al padre Damiano, il quale legge gelosamente nella sua camera chiusa col dolore in petto di due figli in carcere. Le cornici che tristemente campeggiano nel racconto sottolineano tra l’altro la solitudine esistenziale della madre Concetta e la sorella Serafina, testimoni silenti di una crudele sorte illustrata in dettaglio dal protagonista. E’ la storia di uno sconto di pena per associazione mafiosa e omicidio, imputati a Matteo che entra nel carcere nel 1993. Egli si ritrova a piangere da lontano la scomparsa del padre, mentre è detenuto nel carcere di Bologna, dove si trova per sostenere un esame universitario.
“Studiare in carcere è come lavorare sotto il cielo cocente”, sostiene egli stesso. “Le morti cambiano sempre la vita dei vivi”, lo dimostra l’atto di scrivere poesie, grazie a ciò che gli sembrò di vivere due volte. E narrando delle condizioni di vita carcerarie Matteo precisa di avere un debole per il passo costituzionale che recita ”tutte le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lui, uno studente o forse verrebbe da dire uno studioso prestato alla filosofia, intento a ricomporre il puzzle della giustizia che colpisce al cuore l’uomo “prigioniero”, ma che in realtà vince la vita ogni giorno grazie ai legacci allegorici di sua moglie che al pari di Sansone, con i suoi lunghi capelli asciuga, metaforicamente e non solo le lacrime di Matteo e lo fa risorgere a se stesso. Matteo consegue quattro lauree nell’Istituto di Pena, un traguardo ragguardevole sebbene non colmi mai la sua sete di cultura, avente sempre un sapore di fresco. L’autore presenta uno stile toccante ed efficace unitamente ad una forma di scrittura utilizzata nel volume ad uso e consumo del lettore, privilegiato fruitore, ne è prova tangibile il punto focale della amara sorte di Matteo che risulta alla fine un controsenso. Si tratta dell’interessante passo che evidenzia, andando nella giungla del diritto penale della legge Carotti, presto denominata “legge dei carretti”, che la legge dell’ergastolo alla quale Matteo era condannato poteva essere commutata a tempo pari a 30 anni. Una chimera così appare a questo viaggiatore dell’inferno che si vede sfumare il suo agognato sogno, ritenuto premonitore di una libertà ex novo. Scandita dai dialoghi essenzialmente interiori, la giornata nel carcere duro dove come una meteora che si fa spazio si delimita la presenza di Marco nell’ora di aria e poi il confronto con l’avvocato Conti e il supporto di Don Alberto, figure che alleggeriscono un quotidiano che pesa come un macigno.
Lo sfondo di questo tenebroso mondo è caratterizzato dai numerosi suicidi a cui Matteo si sottrae probabilmente grazie proprio al sentimento della sua consorte alla quale non è insensato associare il riferimento latino “omnia vincit amor”. Solo l’amore faceva sentire Matteo libero pur nell’afflizione della galera. Portavoce di esso solo Sofia, donna i cui caratteri, simbolicamente a giusta causa tutti maiuscoli, ridisegnano l’effusione di un profluvio di emozioni con cui ella segue le vicende di una vita ormai trascorsa in un andirivieni da cui solo pensare di prendere le distanze non sarebbe nemmeno un eufemismo. Per di più si assiste alla compagnia di una costrizione nella costrizione , uno spiegarsi delle ali della fantasia che permette al marito condannato di volare alto al cielo come un alieno, tuttavia riconoscendo la condanna della matrice del suo essere legato all’impietosa terra. Una terra fredda, marrone come è e consistente che zolla dopo zolla, se si vuole descrivere il suo allontanarsi dalla scena dell’esterno, copre lo sguardo che gradualmente si stacca dalle immagini delle sua cara. Sovvengono i celebri versi di Goethe “il mio cuore sente ogni eco del tempo lieto e triste, procedo tra gioia e dolore nella solitudine”.