In uno dei più importanti centri messapici del Salento, Muro Leccese, a circa 30 km da Lecce, è nato e vive un musicista, da sempre riservato e schivo, il maestro Giuseppe Chiri.
La ricorrenza del suo genetliaco (7 marzo 1936) offre l’occasione di farlo conoscere come magister di tante generazioni di musicisti e ricordare l’importanza di non dimenticare la figura dell’insegnante portandogli rispetto, soprattutto se si considera quanto per Chiri l’alunno era considerato “sacro”.
Immaginando di sfogliare le pagine della sua vita con la tecnica del flashback, si parla di un uomo dotato di talento. Pur nelle ristrettezze economiche, con tanta tenacia e studio diventa un musicista e dedica la sua vita, oltre alla famiglia, al servizio dell’arte in quanto ‘sedotto’ da quella vibrazione del suono che sa produrre bellezza senza tempo.
Il tutto ha inizio quando il giovanissimo Giuseppe è attivo come organista accompagnando i cori parrocchiali, intuendo che quella sarebbe stata la sua strada. Successivamente decide di dedicarsi ad una professione poco considerata nell’immaginario collettivo, ovvero all’attività didattica presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce (1975-2001), rinunciando così alla luce dei riflettori e all’attività concertistica. In sostanza, come erede dell’antica ellenizzazione della sua terra, aveva ben compreso quanto l’educazione fosse imprescindibile per la formazione culturale, scegliendo così di contribuire a tale processo (paidèia) per i futuri musicisti, necessario anche per l’identità e lo sviluppo delle menti delle giovani generazioni.
La disciplina di insegnamento era “Teoria, solfeggio e dettato musicale” definita, secondo una strana logica, “complementare” quando invece, ancora oggi (pur cambiando nome), rappresenta uno studio indispensabile per ogni musicista.
Se nel Medioevo Guido monaco già sottolineava l’importanza dell’ars solfandi e della solmisazione, la ‘didattica del partimento’ della Scuola Napoletana del XVIII secolo (dai principi teorici, agli esercizi di canto fino allo studio della composizione) ne testimonia l’importanza anche sul piano pedagogico.
Trovo altresì interessante e più vicina a noi un’affermazione/sintesi, a firma del compositore e musicologo Alberto Mazzucato (1850), che sembra quasi anticipare i più recenti studi di semiotica o semiologia della musica: «Nella scuola di solfeggio […] l’allievo apprende a trasmettere il più presto possibile dall’occhio all’intelletto un concetto musicale raffigurato da segni». Concepito in questi termini, il solfeggio rappresenta uno studio tra i più difficili in quanto all’allievo è richiesto, oltre al talento, il saper ragionare ed interpretare i diversi segni nella musica con un approccio più speculativo, andando oltre al genere di musica instrumentalis di boeziana memoria.
Desidero inoltre sottolineare che chi ha avuto il privilegio di seguire le lezioni di Chiri, come il sottoscritto, può soltanto ringraziare la sorte in quanto il suo insegnamento ha costituito il fundamentum del bagaglio delle proprie conoscenze.
Diversamente da altri docenti, il suo approccio disciplinare era sempre di tipo intellettuale e, per molti aspetti, egli aveva intuito quanto i contenuti del decreto n. 1945 (11 dicembre 1930) risultassero inadeguati alle nuove esigenze poiché necessitava un approccio più concreto, pragmatico e scientifico anche in ambito teorico.
Per realizzare ciò gli viene in soccorso la sua cultura musicale più ‘umanistica’ e il suo sguardo sempre vigile ai vari contributi di altri Paesi, più in particolare verso compositori che dedicano parte dei loro interessi all’educazione musicale, come l’ungherese Zoltán Kodály la cui eredità è raccolta in Italia negli Anni Settanta da Roberto Goitre. Ma se per quest’ultimo la reinterpretazione pedagogica si realizza attraverso il metodo Cantar leggendo, per Chiri si può pensare ad una nuova didattica, forte del credo che la conoscenza della musica avvenga mediante il binomio teoria-pratica ove la pratica è intesa per ogni tipo di strumento e/o disciplina musicale.
Non è un caso se, tra i vari testi teorici allora in uso nei Conservatori italiani, il maestro adotti Suono e ritmo della musicista napoletana Emilia Gubitosi. Soprattutto per la fine anni degli Anni ‘70 la pubblicazione poteva rappresentare una sorta di Summa de speculatione musicae e, per alcuni aspetti, la proiezione naturale della Scuola napoletana volendo conservare il suo legame (imprinting) con la città partenopea ove a diciassette anni aveva conseguito il compimento inferiore di pianoforte.
Seguendo le sue pacate lezioni, si percepiva di poter apprendere già qualcosa soltanto guardandolo e appena si avventurava in approfondimenti veniva fuori la dotta e ampia formazione musicale grazie ai suoi studi: diploma in Pianoforte (1958), Strumentazione per banda (1971), Musica Corale e Direzione di coro (1972) e Composizione (1980) conseguiti presso i Conservatori di Lecce e di Bari. Questa preparazione non solo gli permetteva di spaziare dalle teorie sul ritmo a quelle armoniche, all’interpretazione del segno musicale, ma poteva impartire insegnamenti come pianoforte e una serie di discipline afferenti alla composizione. Tale particolarità spiega perché non mancassero occasioni in cui amici e colleghi gli facevano visita rivolgendogli domande e chiedendo consigli di vario genere. Accadeva qualcosa di simile a Luigi Dallapiccola il quale, pur insegnando pianoforte complementare presso il Conservatorio di Firenze (1940-1967), riceveva musicisti e compositori curiosi ed interessati alle sue idee, sperando di apprendere qualcosa.
Il modo di relazionarsi di Chiri, anche con gli studenti, consisteva non nel fornire soluzioni ma, attraverso un dialogo autentico e una prospettiva comportamentista di tipo skinneriana, preferiva adottare una sorta di rinforzo positivo portando l’interlocutore a trovare la risposta. Nel suo metodo veniva fuori tutto ciò di utile per l’apprendimento; se in alcuni momenti emergeva la maieutica socratica, in altri vi era l’invito implicito alla ricerca della soluzione mediante un ragionamento che privilegiava la ricerca, reminiscenza del bachiano Quaerendo invenietis.
Il maestro non di rado sembrava voler andare oltre l’insegnamento della propria disciplina e non si stancava di raccomandare ai giovani di investire nel diventare uomini di valore anziché rincorrere il successo. Tali valori e obiettivi ancora oggi stentano ad affermarsi perché nella maggior parte dei casi si preferisce percorrere scorciatoie. Trovandomi oggi a svolgere la stessa ‘missione’ di docente (pur con altre discipline), desidererei incontrare la stessa umiltà, competenza e dedizione incondizionata al servizio della cultura senza imbattermi in sentimenti e atteggiamenti negativi che albergano anche nel mondo della musica. Mi piacerebbe immaginare non gelosie e dispetti, ma rispetto e ammirazione verso coloro che cercano di crescere intellettualmente attraverso lo studio e riescono così ad affermarsi professionalmente grazie ai loro meriti, considerandosi sempre ‘nani sulle spalle di giganti’.
Caro maestro, interpretando i sentimenti dei tantissimi studenti che lo hanno conosciuto durante la sua lunga attività didattica, sappia che il suo esempio di umanità, di musicista e di didatta non cadrà nell’oblio perché una pianta sana, forte e feconda può solo produrre buoni frutti.
Con gratitudine e affetto buon compleanno, Maestro.
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