Provate ad immaginare un bambino che assiste alla Messa o partecipa alle processioni e che si trova coinvolto a cantare un Inno come il Pange lingua, durante la solennità del Corpus Domini.
Egli, sprovvisto delle pur minime conoscenze del latino, ma non del canto, si unisce al coro, inteso come autentico incontro di umane voci, passando attraverso l’esperienza del lento e paziente apprendimento di tipo imitativo, mescolando un linguaggio balbettante e reiterati vocalizzi all’ascolto di una musica che viene da un tempo molto lontano.
Tra la fine degli Anni Sessanta del Novecento ed inizio dei decenni successivi per coloro i quali non riuscivano ad inserirsi in questa sorta di iniziazione non poteva mancare il rinforzo degli adulti (spesso un sorriso gentile e consolatorio) che, dato il periodo e il contesto sociale (molti contadini e casalinghe del Salento), in genere arrivava proprio da coloro che non conoscevano il latino. Tuttavia dai più coinvolti potevano nascere significativi impulsi di energia spirituale tanto da percepire una musica fatta di parole scaturite dall’anima, qualcosa di simile e rintracciabile nel pensiero di Beethoven: «Dove le parole non arrivano… la musica parla».
A pensarci bene, per alcuni aspetti e soprattutto per i più piccoli, accadeva qualcosa di simile a quel trastullo dei padri e delle madri che si divertivano a incoraggiare i bambini ad apprendere un idioma diverso (Par. XV: «consolando, usava l’idïoma /che prima i padri e le madri trastulla»).
A rendere le sei strofe in rima alternata del Pange lingua dall’apprendimento più ‘orecchiabile’, contribuiva la melodia dolce, penetrante e solenne, composta nel terzo modo, spesso definito mistico e più facile a sentirsi che ad esprimersi o definirsi.
Ai nostri giorni ha ancora senso, volendo coinvolgere soprattutto bambini e giovani, cantare o ascoltare quest’inno attingendo al gregoriano, alla polifonia o a repertori come messe, oratori, ecc. presenti nella cosiddetta musica sacra quasi sempre in latino, o si devono utilizzare canzonette e generi poco consoni alla laudatio Dei?
Evitando varie prese di posizione si può far notare che quando cantiamo con devozione e spiritualità, a differenza del cantare solo per diletto, si è più attenti a ciò che intoniamo con la nostra voce, come ricordato da Sant’Agostino (Conf. X, 33): «tutti gli affetti dell’animo nostro secondo la soave loro diversità trovano ciascuno la propria nota nelle modulazioni della voce e del canto, in causa di non so di quale segreta relazione che li risveglia». Ecco allora che cantare (e anche suonare) nei luoghi sacri da teatranti è privo di sensum e di ‘concordanza’ con il lodare, con tutta la pienezza del nostro cuore, Dio.
Venendo alla domanda del cantare e/o ascoltare composizioni come il Pange lingua, pur senza comprenderne il testo intonato, possiamo affermare che tuttavia era ed è cosa buona e giusta perché già allora si comprendeva comunque il senso e il motivo per cui si cantava, bastevole per «eccitare in essi la divozione», rimandando il resto all’educazione di valori profondi insiti nella musica sacra, imprescindibile per restituire dignità all’arte della musica e, riferendoci all’Apocalisse, finalmente avvicinarsi a quel cantico nuovo dinanzi al trono di Dio.
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