Assistere ad un concerto dell’Orchestra Giovanile Italiana (OGI) è sempre un evento che predispone l’animo al bello. È come vedere la crescita dei nostri giovani, ospitati in un vibrante grembo sonoro, desiderosi di diventare bravi musicisti e vivere il loro tempo nelle grandi orchestre. È una gioia che arriva da lontano, dal 1980, anno della nascita dell’OGI, ideata da Piero Farulli all’interno della Scuola di Musica di Fiesole, una specie di bottega simile a quella del Verrocchio, nella Firenze di fine ‘400, ove si sono formati artisti del calibro di Leonardo, Botticelli e tanti altri.
L’esperienza fiesolana, oltre a continuare ad essere un significativo esempio didattico ed artistico per il nostro Paese, rappresenta un autentico crocevia di arte, cultura ed umanità per i moltissimi ragazzi; già dagli esordi, essi, solo per la possibilità di incontrare lo sguardo dei tanti maestri, potevano percepire l’impressione di imparare già prima di iniziare un percorso. Oggi gli sguardi sono altri (molti dei maestri di allora purtroppo ci hanno lasciato) ma l’orchestra suona sempre con grande entusiasmo e professionalità.
Il recente concerto di sabato 10 giugno, tenutosi presso la Sala Zubin Mehta del Teatro del Maggio, è stato un’ulteriore occasione per ascoltare un bel programma musicale. L’evento, inserito nell’ambito dell’85° Maggio Musicale Fiorentino e in collaborazione con la Scuola di Musica di Fiesole, ha visto inoltre protagonista il maestro Daniele Giorgi, al suo debutto in questo Festival.
Un programma avvincente e alquanto impegnativo con musiche di Chabrier, Schumann, Stravinskij e Musorgskij, e la ‘presenza’ di Ravel in qualità di orchestratore di lavori concepiti per pianoforte.
Prima di entrare in medias res nella narrazione, diciamo subito che la scelta, più in particolare delle musiche di Chabrier, proponeva partiture poco conosciute al grande pubblico, mentre per la presenza de L’Oiseau de feu di Igor Stravinskij e dei Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij, si intuiva l’intenzione di ‘osare’ con grandi capolavori dalla seconda metà dell’Ottocento fino al 1922, anno dell’orchestrazione da parte di Ravel dell’opera del compositore russo.
Durante il concerto si è potuta apprezzare una naturalezza, una capacità e chiarezza comunicativa talmente funzionale da parte del maestro Giorgi tanto da riuscire a realizzare con l’orchestra un’autentica correspondance di intenti.
Se la Joyeuse marche di Chabrier esprimeva un entusiasmante inizio del concerto, il Menuet pompeux (orch. di Ravel), oltre a rappresentare un altro tableau tipico del musicista francese, assumeva anche significato di grande ammirazione e stima nei suoi confronti da parte dello stesso Ravel, così come di altri grandi compositori, tra cui Debussy e Stravinskij, riuscendo ad influenzare con la sua musica il gruppo de Les Six.
Alcuni brani tratti dal Carnaval op. 9 di Robert Schumann (Préambule, Valse Allemande, Intermezzo: Paganini e Marche des Davidsbündler contre les Philistins), orchestrati da Ravel, sono stati occasione per ripensare allo Schumann dalle vaghe allusioni di un mondo immaginifico ove l’autobiografismo si intreccia fino a rifrangersi nell’universo letterario di autori come Hoffmann, nei contrasti luci-ombre di un Romanticismo oscuro, ma anche negli echi del mondo poetico di un bambino sensibile che guarda ai suoi Kinderszenen op. 15.
L’ottima esecuzione de L’oiseau de feu, affascinante partitura di Igor Stravinskij (balletto, versione 1919, tratto da una fiaba russa, Uccello di fuoco, con la coreografia di Mikhail Fokine), è stata occasione per il pubblico di poter percepire una scrittura ben strutturata dalla quale riaffiora la grande lezione di orchestrazione di Rimskij-Korsakov, cui è dedicata l’opera, ma anche sintesi del suo pensiero creativo (fino al 1910) con caratteristiche che confluiranno ne Le Sacre du printemps.
È bastato ascoltare le primissime battute dell’Introduzione, con archi gravi e grancassa (tutti in pp), per immergersi in un’atmosfera grave, quasi ipnotica ed in un mondo imperscrutabile. Se la successione del tetracordo discendente (la bemolle-fa bemolle-mi bemolle-re: risultato di un intervallo di terza maggiore seguito da due seconde minori e successivi sviluppi nella forma retrograda, et alia) fa presagire una mente ben organizzata tanto da trattare i suoni come un compositore dodecafonico, sbirciando tra i sei numeri, molte sono le cose che colpiscono: ad esempio la struttura ritmico-melodico del sincopato nella Danse infernale du roi Kascej che diventa quasi tribale o gli accordi dissonanti all’interno di intervalli paralleli di sesta nel Finale Lento Maestoso. È stato un susseguirsi di seduzioni sonore con atmosfere fiabesche affidate al racconto dell’orchestra, mentre il direttore, di volta in volta, è riuscito a restituire immagini nitide fino a plasmare ogni espressività melodica come nello struggente canto del fagotto (Berceuse) o nel p dolce cantabile dei corni all’inizio del Finale.
Dopo il Menuet di Chabrier il programma si è concluso con i celeberrimi Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij, opera tra le più famose (anche nella versione originale per pianoforte) del compositore russo nell’orchestrazione magistrale di Ravel. L’intera Suite (dieci brani caratteristici), concepita in memoriam dell’amico pittore ed architetto Viktor Aleksandrovič Hartmann, trae ispirazione da alcuni tableaux dell’ artista ove a fare da trait d’union, pur in una visione cangiante (varietas), è la reiterazione di un episodio (Promenade: rappresenta il musicista mentre si aggira tra le opere) dal melos ben riconoscibile per la sua struttura chiara e pentatonica già dall’esordio della tromba. Una partitura monumentale anche dal punto di vista dell’organico in quanto Ravel non esita ad ampliare le singole sezioni, compresa la grande varietà di percussioni, affidando soli impegnativi come nel celeberrimo Bydlo–Sempre moderato pesante con intervento del bassotuba nell’evocare l’incedere faticoso di un carro polacco o la struggente voce del sassofono ne Il vecchio castello, ecc.
Ascoltando questo lavoro si evince l’importanza di una buona interpretazione affinché risulti una significativa proposta percettiva in itinere, come il procedere dell’osservatore da una tela all’altra. Ritornando ai Quadri, il pensiero diventa più contemplativo al suono sinistro della tromba mentre si erge dalla sezione degli ottoni (Catacombae-Sepulchrum Romanum). La strumentazione grave (ottoni, fagotti, controfagotto e contrabassi e il successivo tremolo di tutti gli archi) rimanda all’idea della mestizia della morte, alla quale assistiamo ogni giorno nei vari conflitti sparsi per il mondo. Con La cabane sur des pattes de poule (strega Baba-Yaga) la percezione è simile a quel procedere ‘primitivo’: reiterata estetizzazione della violenza espressiva del XX secolo.
Infine ecco l’ultimo Quadro (Allegro alla breve. Maestoso. Con grandezza) La Grande Porte (Dans la capitale di Kiev) ove si allude all’ingresso nella capitale ucraina, oggi inteso come sincero ed autentico augurio di ‘accesso’ al dialogo, simile a quello che si è percepito tra direttore, orchestra e le varie sezioni, in un ideale abbraccio fraterno tra tutti i Paesi che sono colpiti dall’odio e dalle guerre.
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