Tra i tanti eventi dedicati a Puccini, nella ricorrenza dei 100 anni dalla morte c’è Milano. É il 15 luglio 2024. Il sipario del Teatro alla Scala si apre su una Pechino avvolta nelle tenebre. Si rappresenta Turandot di Giacomo Puccini. Una favola incompiuta, l’ultimo grande capolavoro del compositore lucchese. Il buio rischiarato solo da migliaia di piccole lucine; il pubblico sembra assistere, in religioso silenzio ad una veglia funebre, mentre il ritratto di Puccini campeggia sovrano sulla scena. L’atmosfera è quella delle grandi occasioni. Un cast di assoluto prestigio. La Principessa di ghiaccio è Anna Netrebko.
Il dono della vita e il mistero della morte raccontato nello stesso luogo dove circa 100 anni fa fu rappresentata la Prima assoluta dell’opera. Sul palcoscenico il tenore Enrico Caruso e alla direzione Arturo Toscanini. Perché ci commuovono ancora quella musica, quelle parole, quel miracolo che è il melodramma italiano? Non è giunta ancora l’ora del tramonto per la nostra storia, la nostra nazione che, attraverso l’opera ha conservato la sua identità, il suo antico splendore.
Puccini lo sa e lo percepisce quando, ancora ragazzino assiste alla rappresentazione di Aida di Verdi. Ne rimane incantato per sempre. Del Maestro di Busseto, ama l’orchestrazione densa, potente, come l’irruenza del coro che si impone con forza sulla scena. Ama l’impasto delle voci, il carattere dei personaggi. Di Verdi sarà incontrastato erede.
Come lo stesso Verdi, Puccini è riuscito a scrivere, a produrre tante opere, arie, melodie così famose da entrare e rimanere per sempre nella memoria e nel costume di un popolo. La trattazione di temi così cari al verismo, al quotidiano vivere, alla semplicità di un mondo piccolo borghese in cui affiorano i temi più disparati: il dramma della gelosia, l’abbandono, il tradimento, l’angoscia e lo spasimo; la capacità, come ebbe a dire lo stesso Puccini di raccontare “il grande dolore in piccole anime”.
Cameriere, sartine, giovani donne ed eroine, femme fatal, amate e amanti tragiche, legate dal comune destino che le vuole vedere uccise o sacrificate, condannate a morire e per mano di un uomo che, dopo averle divorate di piacere e di desiderio, le punisce senza pietà, ed in quell’atto estremo, le consacra, suo malgrado, al trono dell’immortalità. Così sarà il destino di Manon Lescaut, Butterfly, Bohème; così canta Tosca, con il rosario che le scivola tra le dita: “nell’ora del dolore perché perché Signore, perché me ne rimuneri cosí?”
La sua vita è tesa al futuro con uno sguardo al passato. All’ombra di Verdi guarda il gigante tedesco: Richard Wagner. Eppure tra i due giganti sceglie le piccole storie dalle grandi emozioni. Vuole portare sulla scena, grandi amori che fanno palpitare, vuole che il popolo
viva con sentimento, che si commuova e che lui stesso, ne sia l’artefice!
“Mi piaccion quelle cose che han sì dolce malìa, che parlano d’amor, di primavere; che parlano di sogni e di chimere, quelle cose che han nome poesia”. Ogni opera altro non è che pura poesia. Tante sono le Arie diventate celebri e che ancora risuonano nei teatri del mondo.
Manon Lescaut è la prima opera a restituirgli notorietà. É l’opera che lo metterà al mondo come compositore e che segnerà l’inizio di un successo in continua ascesa. Successo economico che corre parallelo a quello con le donne. E così passioni, amori e tradimenti rimbalzano dal palcoscenico alla sua vita privata.
Possiede ciò che desidera: case, ville, motoscafi, macchine, terreni, ama la caccia, le gite in barca, la vita mondana, ma anche la quiete di Torre del Lago, piccolo borgo toscano, dove ama rifugiarsi per scrivere e per meditare. Quando è costretto ad allontanarsi dal suo rifugio scrive di essere affetto da una forma di “torrelaghite acuta”!
Gli piacciono le donne e piace alle donne. Seduttore e seducente raffinato, sposa dopo una relazione clandestina la donna del suo amico Narciso Gemignani: Elvira Bonturi, da cui nascerà il loro unico figlio Antonio.
Le ripetute scene di gelosia lo mortificano e lo addolorano fino a culminare in tragedia quando, la giovane cameriera Doria Manfredi, ossessionata dalle infondate accuse di Elvira, si suicida proprio in casa del Maestro. In realtà la vera amante era la cugina di Doria, Giulia.
É solo un caso anche il suicidio della giovane Liú, in Turandot? La serva gentile, che sacrifica la sua vita per onorare la sua fedeltà!
O il suo passato da Bohémienne? E ancora Suor Angelica? Quasi un ritratto della sorella Iginia, consacrata alla sua vita con Dio? Puccini si guarda allo specchio e, tra l’ artista e l’uomo c’è solo un contorno sfumato.
Lavora con solerzia, compone al pianoforte, uno sguardo al lago, la sua immancabile sigaretta in bocca. Scrive pagine di struggente bellezza. Rimaneggia, abbozza, taglia continuamente. É severo, incontentabile anche con i suoi librettisti a cui chiede senza tregua di cambiare e di sostituire le parole, le parti, la drammaturgia.
Giuseppe Giacosa e Luigi Illica sono più volte sul punto di abbandonarlo, ma l’editore Giulio Ricordi non può rinunciare ad un sodalizio artistico di grande successo. Il copioso carteggio pucciniano è un vero e proprio testamento: 20 mila lettere da cui emerge non solo il suo privato, i suoi turbamenti, ma anche uno spaccato di storia italiana, in cui ritrovare i personaggi che l’hanno animata: da Pascoli a Pirandello, ai contemporanei di Puccini: Mascagni, Ponchielli, Catalani, Leoncavallo, Arturo Toscanini e tanto tanto ancora.
Muore, per un tumore alla gola, in una clinica di Bruxelles il 29 novembre del 1924 l’ultimo operista italiano.
Non ha più voce colui che con la voce ha tessuto le Arie, e tra le più belle nella storia del melodramma.