Da lontano

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DonnaLa vedevo da lontano, come se fosse stesa su una bara e io mi trovassi al suo funerale per fare le condoglianze.

Condoglianze, signora, sua figlia sì, la conoscevo. Gran brava persona. Generosa, gentile, altruista. Mi dispiace moltissimo che sia andata via così presto e bla bla bla, parole vuote a consolare il vuoto inconsolabile della perdita. La guardavo vivere, sorridere, incontrare gli amici. Composta, con i vestiti della festa. O della morte, dipende. La vedevo ballare sulla piazza del suo paese mentre un gruppo di suonatori stonati strimpellavano le loro note gaudenti, leggere ed estive. E lei si muoveva su quella musica. Lo faceva senza grazia perché non aveva mai saputo ballare ma era comunque energia ed incanto. La spiavo mentre camminava con il suo passo sicuro tra la gente, incurante degli effetti che sortiva il suo incedere regale. Era bellissima, la più bella di tutte. Tra tutte. Sempre. Da sempre. La più bella dell’intero universo. Soprattutto quando si specchiava nei miei occhi.

La sentivo ridere di gusto con le sue amiche del cuore, quelle che conoscevano i pensieri più remoti e più nascosti del suo cuore sempre in tempesta. Quelle che le consolavano le lacrime ferite, una cascata argentea, un fiume torbido. Lacrime ferite, già. Si può ferire una lacrima? La immaginavo mentre lasciava i suoi passi su strade note o sconosciute e scrutava negli sguardi di tutti quelli che incontrava, annusava i profumi di corpi sconosciuti. In cerca solo di me.

Lo sapevo. E lei sapeva che non avrebbe potuto incontrarmi in mezzo a quella gente. Un esercizio inutile ma necessario per illudersi, vincere la nostalgia e ingannare il tempo ed il cuore. La vidi partire per un nuovo viaggio in solitudine, di quelli che preferiva. Un viaggio coi suoi momenti finiti ed eterni. Si metteva seduta sulla riva del mare d’autunno, quando gli spazi erano deserti e sconfinati, la sabbia fredda e gremita di strascichi di vita passata di là e poi rientrata nei propri confini ordinari. Lo sguardo perso in un’altra vita a tentare di disegnare scenari diversi, scenari completi.

Lei ed io. Insieme lì. La nostra spiaggia. Quella che non conosco se non attraverso le vibrazioni dei suoi racconti, quella che riconoscerei tra milioni solo toccandone i granelli di sabbia. È stata sempre brava a riportarmi le sue emozioni. Una maestra. Riuscivo a leggere i suoi pensieri mentre con uno stecco di legno disegnava ghirigori insignificanti, cerchi imperfetti di una vita fatta di ricerca e d’amore. Leggevo quei geroglifici assurdi. So con certezza che c’era scritto il mio nome. La sentivo mentre ripeteva strofe di canzoni antiche, di quelle che non mi aveva mai cantato, ma che avevamo ascoltato in silenzio mille volte al chiuso del nostro noi. Mi raggiungevano attraverso il vento e la magia dell’amore che porta messaggi da un capo all’altro del mondo. Con lei rividi tutti i film che avevamo girato insieme, quelli dei nostri incontri. Ricordo i suoi occhi e il suo calore. Occhi grandi che entravano nei miei e mi davano sempre un po’ di più. Più di ogni cosa o ricchezza possibili, più di tutto il pensato ed il pensabile, mentre attorno il mondo si fermava o poteva estinguersi senza che noi ce ne accorgessimo. Quei raggi entravano nel mio corpo e raggiungevano ogni angolo impossibile, una sorta di PET irradiante salvezza, cura e amore profondo. Di quello che una volta nato, non può morire. Di quello che una volta conosciuto non se ne può più fare a meno. La rivedo mentre guardandomi negli occhi mi sussurra che mi ama da morire. E io, un po’ stordito, a chiederle cosa significhi amare da morire. E lei che ignora la domanda e ripete che mi ama e io che le rispondo che la amo anch’io. Ma certo, ma certo. Non sapevo che sarebbero state le nostre ultime parole. Non lo sapeva lei. Ridevamo come due bambini felici e ignari delle insidie dell’esistenza. L’ho vista allontanarsi da noi col sorriso sulle labbra e coi demoni nella mente.

Sapevo che ci saremmo dovuti preparare a un addio. Lo presagivo ma non ci volevo pensare. Avevo altri progetti, le mie ambizioni, la mia strada da percorrere. E lei la sua. Tutto bene. Lontani ma insieme. Addio. Che termine doloroso. Addio, ma perché? Distacco. Va bene, te ne puoi andare, se vuoi. Puoi scegliere altre direzioni ma non puoi smettere di amare se fino a ieri amavi. E’ impossibile vivere senza il cuore che sussulta al suo pensiero. Il cervello che ricorda ogni immagine vissuta insieme. L’udito che ascolta le sue canzoni, gli occhi che guardano le sue foto, le mani che vogliono toccare, le braccia abbracciare e le labbra che bruciano sognando i suoi baci. Per smettere d’amare bisogna morire. O uccidere. La morte si può accettare. Gli addii no. La vedo sulla spiaggia, seduta, una sagoma al tramonto. Mentre ha me nei suoi occhi e in ogni millimetro del suo corpo, la vedo mentre con mani invisibili cerca di strappare qualcosa dal suo petto. Il cuore. Il suo cazzo di cuore che l’ha portata via da me. La vedo come se fossi al suo funerale. Ci sono tanti modi di morire. E probabilmente il peggiore è farlo da vivi.

Sono al suo funerale. Tutti si disperano. Condoglianze signora. Sì, conoscevo molto bene sua figlia. Gran bella persona. Generosa, dolce, buona. Una che mi amava, mi amava da morire. La vedo alzarsi dalla spiaggia e tornare tristemente verso casa.

Pian piano nel tempo la vedo sorridere ad un altro uomo, baciarlo, accarezzarlo, amarlo. E sono io adesso che devo strapparmi qualcosa dal petto. E non solo da lì. Le immagini si mischiano. Non c’è luce che possa rischiararle. Non so più se nella bara c’è lei o ci sono io. Mi mancherai per sempre, amore mio.

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