Il punto di vista
La sera del 13 gennaio 2012, alle ore 21,42, l’inchino di una nave guidata da un Capitano un po’ troppo allegro e molto poco coraggioso finì in tragedia da film. Vecchia notizia di cronaca.
Quel boato infernale, amplificato dalle luci raffinate e festose di una nave da sogno, provocò una discesa agli inferi per 4229 persone.
La Concordia era partita da Civitavecchia per una crociera battezzata ”Profumo d’agrumi”. In quella prima serata di viaggio, la gente a bordo era emozionata e felice. C’erano stranieri desiderosi di conoscere alcune delle località più belle del Mar Mediterraneo, c’erano madri e padri insieme ai loro bambini, giovani coppie, anziani che avevano atteso una vita per realizzare un sogno.
E c’era Francesco Schettino, napoletano, capitano della nave.
Alle 21,30 la felice compagnia si trovava nei pressi dell’Isola del Giglio, in Toscana.
Troppo vicina agli scogli, tragicamente vicina. L’inchino. L’impatto, il boato, il tentativo di evitare il peggio con un paio di manovre riparatrici. Le urla, il buio, il senso di angoscia, mani che si stringono, occhi che si cercano, silenzi che pregano, cuori che invocano una salvezza difficile, grotteschi abiti da sera che diventano cenci pietosi. E lacrime che si mischiano al mare non più amico, non più romantico. Niente profumo d’agrumi, solo terrore e panico.
Il resto è noto: Schettino, capitano vile, è tra i primi a lasciare la nave. La vicinanza con la terraferma riaccende speranze, ma il mare improvvisamente ingoia una parte di quel gigante che sembrava invincibile, ma che ormai è solo un enorme animale innocente, silenzioso e ferito a morte.
Trentadue persone, di cui due non ancora recuperate (e chissà se mai recuperabili), perdono consapevolmente la vita in quell’inferno d’acqua e tenebre. Schettino alla fine sarà l’unico imputato e la nave resterà abbracciata in un contatto totalizzante e nefasto a una parte della costa gigliese, diventando parte integrante del paesaggio.
E tra braccia che aiutano, illusioni che si rincorrono e nuove paure che divengono dolore, eccolo lì, l’uomo medio.
Eccolo lì col suo telefonino di ultima generazione comprato a 48 rate, eccolo in posa a sparare foto ricordo che riprendono moglie, figli e fantasma della nave che giace lì, immobile. Come la morte che racchiude. L’uomo medio non perde occasione per sguazzare nel dolore altrui. Difficile dire dove finisca la compassione ed inizi la morbosità. Difficile accettare di vedere volti sorridenti posare con lo sfondo della nave squartata.
La tragedia che sembrava collettiva a un certo punto diventa personale. Ciascuno si pianga i suoi morti. Agli altri non resta che fotografare.
Intanto la nave resterà incagliata in quell’abbraccio fatale per molti mesi e porterà danni al turismo dell’isola del Giglio, così come farà temere un possibile grave disastro ambientale.
E mentre la creme dell’intellighenzia ingegneristica mondiale lavora su possibili soluzioni per rimuovere l’immenso relitto, l’uomo medio in gita turistica continuerà a fotografare. Foto da mostrare con orgoglio agli amici sfigati che non hanno avuto la grande fortuna di trovarsi là. Foto da conservare nell’album di famiglia e da dire ai nipoti: ”Io c’ero, guarda com’era giovane la nonna!”
A distanza di 20 mesi, nella notte tra il 16 ed il 17 settembre 2013, avviene l’impresa della rotazione e del recupero della nave.
Si spendono 450 milioni di euro. E milioni di scatti. I giornalisti di tutto il mondo a contare ansiosi i millimetri di rotazione, le televisioni collegate in diretta no limits ad offrire nuovo cibo ai curiosi del pianeta.
E poi i soliti cristi che si nutrono di eventi catastrofici per avere piena consapevolezza della propria esistenza attraverso le altrui tragedie.
Il recupero, con la messa in sicurezza, in attesa di poter sposare la nave e demolirla in un porto preposto a tale servizio, avviene con successo.
Tutti sono felici. I gigliesi, gli ingegneri, i giornalisti, i politici.
Anche il Presidente del Consiglio Letta, dal web, si dice estremamente soddisfatto e contento.
Anch’io sarei contenta, amici miei. Se non fosse che non riesco a dimenticare trentadue solitudini annegate in un mare di silenzio. Tra milioni di scatti impietosi.
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