Mia madre indossava una camicia da notte bianca che la faceva assomigliare ad un fantasma. Il viso pallidissimo, le guance ormai vuote e cadenti, il sorriso lieve sulle labbra viola, pochi denti a ornare quella bocca che nella vita aveva pronunciato solo parole gentili e sbagliate. Capelli bianchi radi come fili lunghi e lanosi sparsi sulla schiena di uccellino ferito.
Mia madre su una panchina senza nome, come lei, e intorno la scogliera e il mare azzurro; una musica amara aleggiava nell’aria e sapeva di tempo fuggito in fretta, di attimi persi da mani che cercavano inutilmente di afferrarli. Mia madre, il mio primo guscio, il mio mondo, i giorni della gioia, profumo di pane appena sfornato e di libri impilati nella libreria di noce, e tende chiare e ricamate nel salone di casa nostra.
La mia scrivania piena di speranze e vita, e lei che veniva ad accarezzarmi, a dirmi in silenzio anche solo: ciao mia dolce bambina.
Com’era bella quella madre.
Di notte i suoi passi lievi aspettavano discreti il mio sonno per andare a posizionarsi tra quelli di mio padre. Lei ce li aveva sempre freddi, lui caldissimi. Opposti e felici, quei due. Così li vivevo io. Trascorreva il suo tempo libero, soprattutto di sera, alla luce tenue della lampada antica di sua nonna, su quel tavolo dove ha scritto le sue poesie strambe ed ermetiche. Componimenti pieni di miracoli e sfumature di luce e oscurità. E migliaia di sogni, ora lo so, che uscivano dalle sue viscere insieme al fumo di tutte le infinite sigarette che fumava. Ogni boccata di veleno, un sogno altrettanto velenoso.
Sempre lo stesso sogno. E volto e nome. Mia madre viveva di follia e di follia moriva ogni giorno di più. Ma non se n’era accorto nessuno. Tranne colui che in quella follia l’aveva trascinata, vestendola di stracci colorati, donandole l’illusione che il tempo avesse le ali e potesse riportarla ai giorni incantati dell’amore eterno. Il cuore divenne di pietra liquida e uccise notti vere e fragili equilibri. Si riempì di spine aguzze e sublimi.
Mio padre, lentamente, si rassegnò a quel mare calmo e dolce, a quell’assenza triste, a quella presenza di croce. Lei piangeva e i suoi baci cominciarono ad avere il sapore del sale. Smise di essere moglie. Lui aveva imparato a tacere. E dentro di loro, un cancro si nutriva di abbracci e sogni lontani. Paure di notti che non volevano finire mai, giostre malefiche che vorticavano nel cuore. Ma finirono, tra le rovine delle promesse infrante.
Mia madre adesso accarezza i fiori, e sorride sempre. È una bambolina vestita di merletti violati. Si innamora di tutti gli uomini che incontra. Li avvicina e li chiama col nome che nessuna dimenticanza potrà portare via. E, quando pronuncia quel nome, gli occhi cambiano colore, per un attimo si riappropriano di riflessi di gioventù. Un istante fragile che sfuma e muore su se stesso. E torna la tristezza demente che la protegge dal mondo. Ma forse non dai suoi fantasmi.
Mi abbraccia dolcemente e io vengo trascinata nell’utopia che mi riconosca. La mia esistenza sfila sull’illusione che sappia che sono sua figlia. La tengo stretta a me ed aspiro quell’odore che non è cambiato mai. Il profumo della pelle di mamma. Di mia madre. Sembriamo due ridicoli fantocci ma non importa a nessuno: qui non esiste la realtà, questo è il luogo degli stati mentali. E niente più.
– Mamma, mi manchi tanto -. Fa sì con la testa, gli occhi le si riempiono di lacrime, sembra che comprenda. Il cuore mi batte forte nel petto, il mondo smette di girare mentre lei con dolore pronuncia il nome che nessuna dimenticanza potrà portare via. Piange per lui. Si alza, raccoglie un fiore e lo dona al primo uomo che passa dalla nostra panchina. Un’ombra, che porta sandali rotti con cui si trascina stancamente sul selciato, prende il fiore e lo butta per terra. Lei raccoglie il fiore, se lo porta al petto e riprende a piangere farfugliando una cantilena di intollerabile malinconia. Mi strappa il cuore dal petto questa bambina pura e innamorata. Innocente, invisa, rifiutata, costretta alla follia.
Le asciugo le lacrime e la perdono. La riaccompagno in questa strana dimora di legno e pazzia, le dò un bacio che ricambia con dolcezza. E l’accarezzo … E mi accarezza. Vado via, percorro il viale e la vedo alla finestra che, oltre le sbarre, mi segue con lo sguardo e sussurra che mi ama.
Ti amo, ti amo. Non vede me, lo so; quelle due parole sono per lui. Ma io sento una strana gioia interiore e penso che ci sono condanne peggiori di un amore senza fine.
Sii felice, mamma, nei tuoi sogni sconnessi e nelle tue lotte eterne. Tornerò domani, ti porterò le viole e tu mi ringrazierei credendomi lui. E lo aspetteremo insieme, mamma. Sarà bellissimo vedere la vita risplendere nei tuoi occhi quando finalmente un giorno, forse, incontreranno i suoi.
{loadposition addthis}