Lo scemo del villaggio

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NostalgiaTorno qui dopo tanto tempo.

In un posto che è stato sempre nel mio cuore, avvinghiato come l’edera al muro, il neonato alla mamma, la lacrima all’occhio. Un luogo che saprei descrivere nei suoi milioni di granelli sottili, nelle sue alghe verdi fluttuanti, nelle sfumature dipinte dei suoi tramonti.

Un luogo fatto di tocchi dolci e violenti, sospeso tra gli schiaffi di scirocco fastidioso e di tramontana limpida.

La rotonda sul mare non c’è più. Quella del nostro disco che suona.

Al suo posto due grandi alberi che forse c’erano già allora. Quando mio padre fermava la macchina sul lato opposto alla spiaggia e ci invitava a fare un bagno veloce, mentre lui, coi pantaloni lunghi arrotolati fin sopra il ginocchio, andava a comprare il pesce.

E noi ubbidivamo. Non sentivamo il freddo dell’impatto violento con l’acqua, né il caldo del sole cocente.

Sentivamo la gioia della vita che non conosceva ancora il dolore. Prendevamo palette e secchielli e costruivamo un castello. Ciascuno il suo. Io costruivo una specie di stanza recintata con gli stecchi dei ghiaccioli raccolti qua e là e gettati da chissà quali mani, succhiati da chissà quali bocche. Mi bastava un castello piccolo, forse misero. Non mi andava di perdere tempo nei dettagli di una costruzione inutile. L’ingegneria non è mai stata la mia passione. Preferivo sognare di riempire quello spazio con l’amore di una famiglia futura; e tanto eravamo abituati a sognare quel mare che a volte, pur trovandoci là, costruivamo un’automobile con le cassette rovesciate, una bottiglia al posto del cambio, il piatto che la mamma aveva riempito di frutta al posto del manubrio e via. “Dove andiamo ragazzi?” chiedeva Giovanni che nel gioco era il padre; e tutti noi a rispondere in coro: “Al mare!” e giù a ridere  di gusto.

Ricordi bambini.  Bei tempi.

Sorrido.

Oggi c’è vento forte, ma l’insenatura è protetta.

Le onde si perdono al largo. Il mare è nero, riflette i nuvoloni che sembrano estranei al cielo di questo luogo. Almeno nei miei ricordi di quel cielo. Lo so che se mi bagnerò i piedi e poi continuerò ad entrare, non sarò sommersa da queste acque scure. So che il fondale è molto basso.

Ma oggi mi fa paura. Come nelle notti d’estate quando da ragazzi venivamo a fare il bagno ed io ero fissata con l’idea che quel mare amico potesse nascondere chissà quale mostro, che mi potesse stringere le caviglie e trascinare al largo.

Paura. Terrore di ciò che non si conosce.

Eppure a volte uccide soprattutto quel che ci è noto.

Che idea che avevo da ragazza! Pensavo che bastasse scrivere un desiderio su un foglio e poi affidarlo al mare perché potesse realizzarsi. Una specie di messaggio senza bottiglia. Un messaggio all’universo.

Salvo poi attendere e attendere, per ritrovarmi al punto di partenza, con le lacrime della delusione che andavano ad arricchire quella massa salata. Sì, credo che nel mare di Porto Cesareo ci sia un mio ottimo contributo di lacrime.

Cosa porta via il tempo che scorre?

Porta via noi. Anche se quel che eravamo lo custodiamo bene. Forse sono i nuovi incontri che ci rubano il passato e ci costringono a farne a meno.

Sono sola su questo pezzo di mondo così caro al mio cuore.

Il vento continua a ululare impazzito e crea mulinelli di sabbia, rametti, cartacce.

Devo chiudere gli occhi per difendermi.

I miei lunghi capelli accompagnano il vento, come prolungamenti di un urlo che parte dall’anima e arriva fino al cielo. Come una sinfonia gridata all’immenso. Schiaffi feroci e freddi. Ma io non mi muovo. Mi sento fissata su questa terra in movimento. Non so cosa cerco, forse niente, forse tutto, forse le risposte che non mi so dare, forse sentirmi parte di qualcosa di immenso, o magari cerco solo la resa.

O me stessa, quella che non sono più. Semplicemente. E sono venuta a trovarla qui, sulla mia spiaggia.

Ecco, ora ci sta bene pure un bel pianto. Melodramma quasi completato.

Poi lo vedo. Barba bianca e incolta. Anziano, vestito di stracci, un berretto sui capelli lunghi. Sembra un pittore. Maniche di camicia e pantaloni arrotolati, come mio padre quando ci accompagnava al mare. Ha gli occhi verdi e giovani. Fuma la pipa e ha l’aria sicura del padrone di casa. Ma una spiaggia non dovrebbe avere padroni.

Faccio istintivamente uno stupido ed inutile passo indietro.

“Non aver paura, non scappare” e mi tende la mano.

Arriva un cane, un breton  che mi annusa senza eleganza,  mi fa le feste e riapre ferite dolorose. E solo mie per sempre.

“Lui è Beto, il mio compagno di viaggio, è cieco ma sa leggere il cuore degli uomini” dice il vecchio ”e io sono Augusto, anche se tutti, qui, mi chiamano lo scemo del villaggio”.

Io taccio e lui parla per entrambi. Risponde alla mia curiosità muta.

“Sono arrivato in questo posto tanto tempo fa. Quando decisi di liberarmi di tutte le catene che la vita mi aveva imposto. Sono arrivato mentre percorrevo le strade del mondo in cerca di un luogo che mi donasse pace e libertà, sai quando si dice l’ultima spiaggia?” Ride. “Ecco, letteralmente. Questa era l’ultima tappa di un viaggio lunghissimo ed estenuante. L’ho trovata davvero alla fine. Ho una casetta piccola, la vedi? È quella azzurra. D’estate dipingo e dormo sulla spiaggia. Vendo i miei quadri ai turisti e quello che ho mi basta per vivere e mi rende felice. Mi chiamano lo scemo del villaggio perché di notte parlo alla luna e di giorno parlo col cane, ma io so che in fondo tutti qui mi vogliono bene.”

Tace. Pensa. Poi dice:

“Vuoi bere un bicchiere di vino con me?”.

Mi tende la mano ed io, muta, lo seguo e sorrido.

Il vento ha portato via molte nubi, liberando l’orizzonte. Il sole è una palla rossa che si posa sul mare.

La mia spiaggia, il tramonto, un cane cieco, lo scemo del villaggio. Ed io.

Che sono felice, perché mi sento finalmente a casa mia.

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