Che la Festa abbia inizio …
Il sonno fu interrotto da una serie infinita di spari a salve che riecheggiavano in tutto il paese e si espandevano in quelli vicini, ad annunciare una festa cara al cuore di tutti noi. Già da giorni si vedevano per le strade volti nuovi; o meglio, vecchi volti che come in un puzzle a lungo studiato, si ricongiungevano alle proprie famiglie, abbandonate per forza di tante cose, prima fra tutte il lavoro che qui non c’era e altrove sì.
E altrove, spesso, era davvero lontano. Era fatto di fumo, sudore, nuvole, ghiaccio e nostalgia. L’estate, però, portava le meritate ferie e i novolesi sparsi nel mondo sceglievano sempre la seconda quindicina di luglio per tornare a casa e ritrovare in un abbraccio i pezzi mancanti, fossero fatti di carne ed ossa o dell’azzurro del mare o del verde della campagne o di una preghiera sussurrata in una processione antica.
Tutto in un abbraccio. Tutti in un abbraccio.
La festa durava tre giorni, come adesso. Sabato la processione, Domenica la Messa e Lunedì il cantante.
Una vetrina non da poco.
La Tutuccia era una delle sarte più brave di Novoli e mia madre iniziava a portarle stoffe già dai primi di giugno. Servivano tre vestiti: sobrio per la processione, elegante per la Messa, allegro per il cantante.
La cara Tutuccia si metteva all’opera e confezionava abiti che consegnava un’ora prima della festa, per l’ansia di mia madre che attendeva quella consegna come se si trattasse di un affare di vita o di morte.
Così il sabato mattina casa mia si trasformava in un atelier d’alta moda, anche se i vestiti seguivano un solo modello. Tagliati in vita e a campana, con accessori coordinati e spesso ricavati dalle stesse stoffe. L’eleganza secondo mia madre.
Abitare in piazza ha avuto il suo peso nella formazione della mia anima. Per tanti motivi.
Dall’alba si sentivano i rumori per molti versi impietosi dei ferri delle bancarelle, per noi “barracche”, che già nel dormiveglia stimolavano la fantasia di noi bambini della piazza.
E sì che ai rumori eravamo abituati. Da quelli del mercoledì mattina, giorno di mercato, che per anni soprattutto in inverno, quando si gelava, mi hanno fatta soffrire dei sensi di colpa assurdi perché io ero al caldo di casa mia e loro, i poveri “marcanti”, al freddo e al gelo. Passando al suono delle campane che festose o funeree portavano al nostro paese notizie di gioia o di dolore. Continuando con lo scarico e il montaggio dei pezzi di ”villa”, che necessariamente dovevano avvenire al mattino presto per potere, i poveri operai, sfuggire al caldo tropicale di certe giornate di luglio.
E le auto a tutte le ore, e i netturbini di rientro dal giro notturno, come tante madri che avevano provveduto alla cura dei propri figli e potevano finalmente andare a riposare, e le parole urlate contro il cielo da ubriachi stanchi e mai arresi, e le liti notturne dei soliti piantagrane.
Rumori, suoni, voci. Poesia di un paese. Poesia del mio paese.
Non ricordo una sola festa della Madonna senza vento. E per noi era un problema perché le tovaglie dei tavolini del nostro bar volavano, buttando già bicchierini di rosoli e piattini di spumoni, i capelli composti con cura dal parrucchiere si scompigliavano, i vestiti a campana svolazzavano costringendomi a camminare con le mani sulle gambe in un atteggiamento sgraziato. La villa maestosa sembrava traballare e io pregavo perché non succedesse niente di male a nessuno. Da quei primi ricordi è nata la mia paura del vento.
Poi a un certo punto, improvvisamente, cessava.
E si poteva tornare a pensare alle giostre. La “ballerina”, che emozione! Gli “apparecchi”, che se riuscivi nel giro finale a restare più su degli altri vincevi un altro giro. Il cuore che pulsava come un matto perché durante la festa l’avresti sicuramente incontrato, quel tuo ragazzo così bello che un giorno ti avrebbe fatto la dichiarazione e insieme sareste vissuti felici e contenti per tutta la vita.
E poi Lei, la Madonna del pane. Che solo del mio paese poteva essere la Salvatrice.
1707. Una popolana, Giovanna; una malattia che miete vittime tra la popolazione e una Signora che le dà un pezzo di pane con un messaggio semplice e profondo come l’Amore: “Distribuiscilo ai tuoi compaesani e guariranno”.
Niente di più romantico, niente di più bello.
La nostra Madonna del pane.
Che anche la statua è bellissima. I riccioli biondi, la pelle di velluto, l’abito da sogno, il portamento regale.
E al suo passaggio per le vie, le case aperte, le luci accese, le note delle canzoni mariane ad accompagnare semplici preghiere. Le mie erano sempre quelle: “Madonna mia, fammi andare bene a scuola e fa che lui si innamori di me per sempre.”
Sorrido pensando all’egoismo limitato di quando si è fanciulli. Un mondo che inizia e finisce nello spazio di due brevi pensieri.
Oggi le preghiere sono altre, ma ci sono. Rivolte a una Madre come noi, non più bambine.
Molto è cambiato nel tempo. Usi, costumi, vestiti e cantanti. Molti amici ci hanno lasciati. Tante prove abbiamo superato. Ma siamo qui, noi novolesi. Con le nostre porte aperte, le luci accese, la felicità di esserci ancora una volta.
Tutti in un abbraccio. Che la Festa abbia inizio.
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