Cecilia e Armando erano due fratelli. Cecilia aveva otto anni e Armando dieci. Se qualcuno avesse chiesto loro se si volevano bene, non avrebbero saputo cosa rispondere, perché non conoscevano il valore di quelle parole. Vivevano in un piccolo villaggio di cinquecento anime in cui si conoscevano tutti e tutti si disinteressavano cordialmente degli altri.
Nessuno parlava con i bambini e poiché anche gli adulti non parlavano tra loro, non si presentava mai l’occasione di ritrovarsi e giocare insieme o semplicemente parlare o ascoltare o raccontare storie. Eppure Cecilia e Armando sapevano che un tempo i bambini erano felici. Sapevano che un tempo le famiglie si riunivano intorno al tavolo e pranzavano insieme, e parlavano, parlavano, parlavano. Sapevano che un tempo le famiglie si aggiungevano ad altre famiglie e facevano baccano. Si divertivano semplicemente perché erano tutti lì e si raccontavano storie.
A casa dei due fratelli non ci si divertiva mai. La mamma era sempre presa dalle sue faccende. Era molto brava a tenere tutto pulito e ogni cosa al suo posto, ma non c’era mai un sorriso sul suo volto. Quando Cecilia provava a chiederle qualcosa, lei sbuffava e la allontanava con un gesto della mano. Poi riprendeva a passare e ripassare davanti ai suoi figli, senza vederli.
Il papà non era a casa quasi mai. Rincasava alla sera e, poiché aveva sempre giornate difficili e la stanchezza si leggeva sul suo volto, i bambini non osavano guardarlo neppure. Cenava, da solo, si alzava dalla sedia e si gettava sulla poltrona. Restava così a fissare il vuoto della sua vita e quando i suoi occhi si stancavano andava a dormire, da solo.
Armando aveva una grande passione. Amava osservare il cielo e aveva dato un nome ad ogni singola stella. Sapeva che un nome l’avevano già, ma nessun braccio si era mai steso su di lui con il dito puntato verso quei puntini luminosi e nessuna voce gli aveva mai sussurrato l’immensa gloria dei cieli.
Nel villaggio viveva una famiglia con un bambino che nessuno aveva mai visto. Era nato con mani che avevano solo tre dita e i suoi genitori si vergognavano di mostrarlo in giro pur essendo, a parte questo piccolo particolare, del tutto simile agli altri bambini.
Cecilia pensava spesso a lui. Pensava a quanto doveva sentirsi solo. Più solo di lei, più solo di Armando e perfino più solo di suo padre.
Le giornate erano lunghissime e ogni ora era un’ora di noia e di solitudine.
La noia e la mancanza di parole avevano fatto perdere la memoria delle cose, così quando ci si rese conto che nessuno si ricordava più come si chiamava questo o quell’oggetto, e poiché più nessuno osava chiederlo ad altri, ogni cosa portava un’etichetta che lo indicava.
Cecilia aveva un piccolo cofanetto nascosto sotto il letto. Un giorno aveva visto suo padre prenderlo da un cassetto, guardarlo con sguardo interrogativo e gettarlo via con indifferenza. Lei lo aveva raccolto dal secchio e da allora lo teneva lì. Sul coperchio vi erano due etichette, ma lei non sapeva leggere, perché anche la scuola non era più quella di una volta.
Un giorno arrivò nel villaggio uno zingaro. Si chiamava Vidarò e aveva girato il mondo e aveva conosciuto tante genti. Piantò la sua tenda nel campo sul quale si affacciavano tutte le case e vi si stabilì con tutte le sue cose meravigliose.
Cecilia e Armando videro quell’arrivo come una possibilità di cambiamento, senza sapere perché.
Una sera si recarono da lui, un po’ incerti e un po’ intimoriti. Giunsero davanti all’ingresso della tenda e aspettarono. Dopo qualche secondo videro un’ombra alzarsi dentro la tenda illuminata da un piccolo lume e avvicinarsi. I due bambini fecero un passo indietro come per andarsene ma furono fermati dalla voce calda dello zingaro che si rivolse a loro come nessuno aveva fatto mai.
Li fece entrare e raccontò loro storie. Raccontò loro le grandi avventure che aveva vissuto per il mondo e gli incontri favolosi che aveva fatto. Raccontò che aveva conosciuto un uomo che aveva solo tre dita alle mani e una forza sovraumana.
Disse che era già stato in quel villaggio, tanto tempo fa e si era sorpreso del fatto che tutto era rimasto com’era allora. Quella volta aveva conosciuto un bambino al quale aveva regalato un piccolo cofanetto. Gli aveva detto di non aprirlo fino alla primavera. Lì c’era il rimedio per far tornare la felicità.
Cecilia ebbe un sussulto: forse era il cofanetto che teneva nascosto sotto il suo letto. Ma non disse nulla perché la primavera stava per arrivare e lei ora sapeva cosa fare.
Vidarò ripartì il giorno seguente ed era molto triste perché non aveva altri cofanetti magici e sapeva che senza di esso il villaggio sarebbe rimasto così per sempre.
La primavera arrivò, puntuale come ogni anno. Il tempo non aveva perso memoria di loro.
Cecilia si alzò presto quella mattina, prese il cofanetto con le due etichette illeggibili e lo aprì. Ma non accadde nulla. Forse si era sbagliata o forse non era quello il dono di Vidarò.
Poi scese in cucina e quello che vide le sembrò un sogno.
Strizzò gli occhi più volte per accertarsi che non stesse ancora dormendo.
Armando, il papà e la mamma erano seduti tutti al tavolo a fare colazione. Insieme. E parlavano, parlavano, parlavano.
Da fuori giungeva una musica di festa. Cecilia si affacciò alla finestra e vide un corteo di persone che seguiva un bambino che trascinava un albero pieno di fiori bianchi per piantarlo nel punto dove era stata la tenda dello zingaro. Quel bambino lo portava come se fosse la cosa più leggera al mondo, eppure le sue mani avevano solo tre dita. Ed era felice. Tutti erano felici e si scambiavano abbracci.
Ci fu una gran festa che durò fino a sera.
Poi rientrarono tutti nelle loro case, sempre parlando e sorridendo.
Armando uscì sulla veranda. Il cielo era senza nuvole e la luna splendeva e sembrava gioire.
Cecilia uscì per unirsi a suo fratello, ma si fermò sulla porta perché vide che non era solo. Suo padre era seduto sullo scalino accanto a lui, aveva un braccio teso e un dito a puntare le stelle, e la sua voce sussurrava nomi che le parevano incantati.
Tornò in camera sua, prese il cofanetto che le era sembrato inutile e come per magia riuscì a leggere le due etichette. Sulla prima c’era scritto VIDARO’, e sulla seconda c’era scritto AMORE. VI DARO’ AMORE!
Qualche giorno dopo il papà raccontò ai suoi figli di aver conosciuto uno zingaro quando era bambino, che gli regalò un cofanetto che custodiva una medicina per far guarire il villaggio dalla brutta influenza che lo aveva colpito. Non portava febbre, né mal di pancia…..era l’influenza che faceva dimenticare le cose e faceva dimenticare come si fa ad amare…E lui aveva dimenticato cosa doveva fare a primavera.
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