In continuità con il tema affrontato fra le pagine del nostro giornale il 13 luglio scorso, analizziamo oggi la recente relazione semestrale redatta dalla Direzione Investigativa Antimafia che fotografa – come di consueto – lo “stato dell’arte” della criminalità organizzata sul territorio nazionale facendo attenzione – per quel che ci riguarda – al nostro territorio di pertinenza.
Quanto appresso riportato è anche frutto di uno studio approfondito a cura del collega Alessandro Cellini (Nuovo Quotidiano di Puglia) che ringraziamo per il prezioso contributo ed il lavoro che ha svolto nel discernere quanto riportato dalla DIA.
«L’eterogeneità dei settori della pubblica amministrazione contaminati, in una regione come la Puglia, in cui, tra il 2018 ed il 2020, sono stati sciolti per mafia ben otto consigli comunali, danno la misura del livello d’infiltrazione da parte della criminalità organizzata». Questo si legge nella relazione che fa “le lastre” al secondo semestre 2019.
Una mafia eterogenea, diversa nei suoi scopi ma anche nei metodi. Così viene dipinto il contesto criminale pugliese, caratterizzato sostanzialmente da tre macro-aree: la mafia foggiana, la criminalità barese e la Sacra Corona Unita. Ciascuna delle quali «… tipicamente strutturata ed espressione, nelle rispettive aree di origine e di influenza, di una particolare strategia criminale ed evolutiva». Delle tre, l’unica ad aver “manifestato le forme più acute di violenza e aggressività” è la malavita foggiana: qui “il familismo tipico dei clan foggiani” si coniuga con “la propensione a garantire, con particolare efferatezza, il rispetto delle regole nei rapporti interni tra le diverse organizzazioni criminali”.
D’altra parte, si registra invece una situazione di sostanziale stallo nelle province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto. Mentre nel capoluogo di Regione “i clan continuano ad ispirarsi ai canoni camorristici, avvalendosi anche di liturgie arcaiche del potere che creano identità di appartenenza”, la mafia salentina – intesa in senso ampio – ha connotati diversi.
La SCU, osserva la DIA, sta abbandonando gradualmente i connotati più “gangsteristici”, per acquisire caratteristiche sempre più imprenditoriali. Nel complesso, si tratta di una “mafia ben radicata nel substrato socio-economico, ancora in grado di esercitare un controllo sul territorio, dove tuttavia preferisce concludere affari in modo silente, cercando punti d’incontro con la parte compiacente della politica locale per garantirsi il controllo dei settori più proficui dell’imprenditoria. Un riscontro concreto può essere desunto dagli elementi posti a fondamento dello scioglimento di altri due consigli comunali in provincia di Lecce, Carmiano e Scorrano, che seguono quelli di Surbo e Sogliano Cavour, decretati nel 2018”.
Droga ed estorsioni sono la principale fonte di sostentamento dei clan, ma prendono sempre più piede le infiltrazioni nel tessuto economico e amministrativo. Del resto, il traffico di stupefacenti non può che essere preminente nei bilanci dei clan malavitosi, visto l’intenso traffico di sostanze illecite nel canale d’Otranto, tra i Balcani e le coste pugliesi.
Sempre per quanto riguarda le tre province salentine, si legge nella relazione che “i clan egemoni, in una fase di relativo equilibrio, sembrano non aver mai reciso i legami con boss storici, la cui autorevolezza, nonostante i lunghi tempi di detenzione, continua in qualche modo ad aleggiare sul territorio, anche attraverso gli eredi e le donne dei clan”.
A Taranto il territorio è frammentato: al quartiere Paolo VI il ruolo di comando spetta ai clan Cesario, Modeo, Ciaccia e Pascali; a Tamburi, comanda il clan Sambito; nella città vecchia le famiglie mafiose di riferimento sono Pizzolla e Taurino; a Talsano, Tramontone e San Vito, i clan egemoni sono i Catapano, Leone e Cicala; nel quartiere Salinella c’è la famiglia Scarcia; mentre il quartiere Borgo è diviso tra i clan D’Oronzo, De Vitis, Diodato e Ricciardi. In provincia, il clan Putignano opera a Palagiano e Palagianello; le zone di Crispiano, Massafra, Mottola, Statte (ma anche, in parte, Palagiano e Palagianello) sono di “competenza” del clan Locorotondo; gli stessi Locorotondo, operano a Grottaglie e San Marzano e, insieme con i Cagnazzo, anche a Lizzano; a Massafra il clan egemone è quello dei Caporosso; infine, quella di Manduria è zona del clan Stranieri.
A Brindisi, la città è appannaggio dei clan Brandi e Morleo, mentre i gruppi storici Vitale, Pasimeni e Vicientino controllano una vasta area dell’entroterra in provincia, in parte condivisa con i clan Campana e Rogoli. A Torre Santa Susanna il clan egemone è quello dei Bruno, mentre a Tuturano la famiglia mafiosa di riferimento è quella dei Buccarella.
Sostanzialmente invariata anche la situazione in provincia di Lecce. Il capoluogo è appannaggio dei clan Briganti e Pepe, che “controllano” anche Surbo. La zona immediatamente a sud (parte di Lecce, poi Cavallino, Lizzanello, Melendugno, Merine, Vernole, Caprarica, Calimera e Martano) è territorio del clan Rizzo. Il nord della provincia è suddiviso tra i clan De Tommasi e Pellegrino (Squinzano, Campi Salentina e Trepuzzi), e Tornese (Monteroni, Carmiano, Guagnano, Veglie, Leverano, Arnesano, Porto Cesareo, Sant’Isidoro). Gli stessi Tornese stanno approfittando delle operazioni che hanno di fatto decimato il clan Padovano, riuscendo dunque a “colonizzare” l’area di Gallipoli. Tra Aradeo, Cutrofiano, Galatina, Noha e Soleto operano i Coluccia, mentre il sud Salento (Casarano, Parabita, Matino, Collepasso, Alezio e Sannicola) è territorio dei clan Montedoro, Scarlino e Giannelli. Anche se, sottolinea la relazione, il vuoto di potere che si è venuto a creare soprattutto a Casarano ha favorito, da un lato, la crescita di piccoli gruppi malavitosi locali, e dall’altro la risposta dello Stato attraverso protocolli e patti per la sicurezza.
Novoli? Terra di conquista.