Formazione: Stato o privati?

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Quello sulla formazione e l’istruzione è un dibattito iniziato ormai tempo fa, quando i pensatori si chiedevano a chi spettasse l’onere della formazione dei cittadini e quale fosse la sua funzione.

Se dal ‘500 all’‘800 circa, l’istruzione era totalmente nelle mani dei privati, ovvero i nobili ed i benestanti, nel corso del ‘900 le competenze si trasferirono al settore pubblico statale. Se tra il ‘500 e l’‘800, l’Italia era una sorta di Harvard, la qualità dei pensatori e degli insegnanti spingevano i giovani nobili europei a venire nel nostro Paese per apprendere quanto poteva far di loro dei buoni governanti, dagli anni ’90 del secolo scorso, tuttavia, osserviamo un’inversione netta di tendenza, un moto contrario delle nostre migliori menti.

Cosa è cambiato nel Novecento? Come è cambiata la formazione e quale è divenuta la sua funzione?

Un aspetto fondamentale è mutato: dalla scuola elitaria per pochi, si è passati alla scuola eguale per tutti. Nel Novecento, si è spostata, insomma, la gestione della formazione dai ricchi potenti allo Stato, in un più generale accentramento di quello che si definisce “welfare”.

Fu il pensatore comunista Antonio Gramsci a porre l’attenzione sull’importanza della funzione sociale dell’istruzione, che non poteva più essere destinata ad una cerchia di pochi, ma doveva essere per tutti, perché utile alla crescita del cittadino, dell’essere umano. Insomma, uno strumento di lotta politica per tutti, con la sua funzione anche educativa e non legata alla logica dell’ambiente circostante, non organizzata secondo il sistema industriale.

Ad oggi, qual è la situazione? La scuola e l’università trasferiscono nozioni realmente utili, educative e funzionali alla crescita dei ragazzi, oppure sono istituti che non formano più e insegnano quanto basta per “fare di conto”?

A ben vedere le condizioni nelle quali si trovano oggi questi enti di formazione, viene da pensare che la formazione non sia più nelle loro mani. Perché? La formazione, ormai dal 1992, è legata soprattutto al mondo del lavoro, si studia per poter trovare un impiego, non per essere più colti ed essere in grado di sviluppare il proprio io. E bene, la formazione sta così trasferendosi sempre di più agli enti economici, alle aziende, che istruiscono il soggetto alla sola mansione da eseguire sul posto di lavoro.

La scuola e l’università statali non sono più il fulcro della formazione, hanno perso la loro funzione educativa, che gli apparteneva fino agli anni ’80 del secolo scorso. Un qualcosa, questa, che ha prodotto l’analfabetismo funzionale di cui tanto si sente parlare oggi: soggetti che pur sapendo leggere e scrivere, non comprendono e non sviluppano ciò che leggono e scrivono.

A cosa è dovuto tutto questo? Buona parte della motivazione risiede nel decentramento formativo, dettato dal capitalismo più forte, intento a riprendere in mano formazione ed istruzione. L’obbiettivo è quello di trasferire nozioni e concetti applicati nel suo mondo industriale, via via sempre più esclusivo di idee che non attengano alla tecnica. Per dirla in parole povere, si potrebbe pensare che la volontà capitalista sia quella di creare soggetti orientati solo al lavoro, che comprano oggetti prodotti dal capitale e che non si pongono domande troppo difficili. Insomma, soggetti malleabili!

Come nel mondo del lavoro e dell’economia, lo Stato sta lasciando l’iniziativa ai privati anche della funzione pedagogica per i suoi cittadini. Una “devoluzione” talmente forte e significativa che, come è possibile notare già oggi, i nostri giovani acquisiscono ciò che gli risulta funzionale una volta usciti dal circuito dell’istruzione.

Le prospettive di questo percorso sono tutt’altro che rosee, anzi, sono escludenti ed elitarie. Conclusioni queste che emergono se ci si ragiona su i continui tagli all’istruzione pubblica.