Mentre, sopravvissuti alla tanto attesa fine del mondo, tutti continuano a vivere la loro vita, fra gli affanni e le piccole o grandi soddisfazioni quotidiane (dove comunque non mancano le ombre e gli affanni), a Lecce succede qualcosa di molto curioso.
Due “figure” sospette si agirano per le sale del Castello Carlo V: un uomo e una donna, entrambi longilinei e in calzamaglia nera; lui con passamontagna, lei con una lunga chioma bionda raccolta in uno chignon.
Hanno occhi di ghiaccio e passo felino; tra le mani, torcia, coltello e pistola. Sembrerebbe il luogo di un crimine o l’ambientazione di un film, ma non è così: il Castello Carlo V è stato scelto come location per una mostra d’arte.
Dal 21 dicembre al 5 gennaio, infatti, questa dimora, romantica come poche e sempre suggestiva, ha ospitato nelle sale del piano superiore la mostra su Diabolik per il suo cinquantesimo anniversario. Una mostra itinerante già da tempo in diverse città italiane, che attraverso un’esposizione di pezzi da collezione, gadget vari e fumetti e l’istallazione di totem interattivi touchscreen, ha voluto riassumere le avventure del ladro mascherato più famoso del mondo e della sua sexy compagna Eva Kant dal 1962 a oggi.
Facendo un giro tra le sale non si poteva non rimanere affascinati dal carisma del super eroe senza tempo, che non dimostra minimamente i suoi cinquant’anni e che rimane tutt’oggi protagonista indiscusso tra i personaggi dei fumetti. Tra gli artisti invitati a partecipare all’inaugurazione della mostra una giovane pittrice di Cavallino, Luisa Carla‘, che ha studiato all’accademia di Belle Arti di Lecce.
Appena arriva mi saluta sorridente nel suo maxy-pull lamé, col viso incorniciato da una frangia sbarazzina e si prepara per l’estemporanea di pittura. Disegnerà gli occhi di Diabolik ed Eva, ma si accorge di aver dimenticato in macchina dei colori per lei fondamentali, il bianco e il nero. Così l’accompagno e intanto scambiamo quattro chiacchere sulla sua partecipazione alla mostra. Mi confida che lei non si trova tanto a suo agio a dipingere tra la gente, ma che al contrario preferisce farlo tra le mura domestiche, o comunque lontana da occhi indiscreti, e soprattutto con musica suffusa e in tranquillità. Ha deciso di fare questa esperienza principalmente perché attirata dai soggetti che, dati gli “abiti di scena” che danno risalto allo sguardo, le avrebbero servito su un piatto d’argento la possibilità di valorizzare gli occhi che ama rendere protagonisti delle sue opere a dispetto dell’inizio del suo percorso. Mi spiega più chiaramente Luisa “… nei primi approcci con la pittura prediligevo raffigurare la bellezza del corpo delle donne, però con il volto nascosto, in bianco e nero, nude, unica nota di colore era data da una farfalla che si posava sui corpi grigi dando luce al solo spazio del suo volo, una lieta premonizione che istigava al risveglio”.
Quella farfalla che disegnava Luisa dunque, simbolo di ricerca di libertà e d’identità, prospettava un cambiamento che poi sarebbe arrivato, una metamorfosi psicologica ma non di stile, che rimane sempre surreale. Da qualche anno a questa parte, complici l’amore e la vita, i “corpi” hanno lasciato spazio al “volto” nei grandi quadri di Luisa, dove gli occhi acquisiscono un ruolo predominante. Grandi, profondi e talmente veri da sembrare lucidi, gli occhi diventano davvero “lo specchio dell’anima” dei personaggi da lei ritratti. Tra i miti che Luisa da sempre scruta, ascolta e legge, “mostri sacri” come David Bowie, Patty Smith, Salvador Dalì, Marilyn, e poi ancora i nostri Battisti, Battiato e il grande Totò. Li sceglie nella vita, li immagina nella sua mente senza stravolgerli e decide di raffigurarli in bianco e nero, in un “Chiaroscuro etereo e malinconico stagliato su uno sfondo i cui colori e disegni sono frutto di una ricerca sui particolari della vita dei soggetti ritratti”. La sua “Pop Art” diventa dunque frutto d’introspezione ma anche di ricerca, traguardo di un percorso ma anche sintomo indiscusso di una maturità artistica e di donna, di un’artista che “farà” strada.
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