Lecce ‐ Saranno le suggestive sale dell’ex Conservatorio Sant’Anna in via Libertini a Lecce ad ospitare, mercoledì 13 luglio, ore 19.00, “Lo specchio convesso”, personale di pittura di Marco De Mirto, giovane artista salentino di raro talento. Organizzata con il patrocinio del Comune di Lecce ‐ settore Cultura e Beni Culturali, l’esposizione, che si è avvalsa dell’intervento analitico di Lucio Galante (Università del Salento), rimarrà aperta sino al 30 luglio (h 11‐13; 18‐20.30). Ingresso libero. Abbiamo incontrato Marco De Mirto per parlare di lui e della sua arte.
Da dove nasce la pittura di Marco De Mirto?
Il disegno, la figurazione fanno parte della mia vita da sempre. La facilità con cui davo lineamento alle mie fantasie di bambino mi ha accompagnato per tutta l’infanzia, in quel mix di gioco-creatività che è tipico di quell’età. Ma ricordo con precisione anche il fascino potente che esercitavano su di me i grandi maestri, del Rinascimento soprattutto, osservati attraverso le pagine dei libri.
Cosa, di un tuo dipinto, mette meglio a fuoco la tua personalità artistica?
Il simbolismo, che è parte integrante dei miei lavori. Il sottile significato sotteso alle immagini è il fil rouge che caratterizza tutte le mie opere. Un simbolismo da intendersi, naturalmente, non come quello di Moreau, Böcklin o dei divisionisti italiani – che pure fanno parte del mio background – ma come un percorso di ricerca iconografica e poetica che si muove in un ambito assolutamente contemporaneo.
Che cos’è per te l’ispirazione?
Ah, l’ispirazione! Ho l’impressione che con questa ‘misteriosa’ forza propulsiva si siano giustificate le peggiori nefandezze dell’arte contemporanea. La parola, ormai inflazionata, ha perso progressivamente di significato, soprattutto dalle Trans-Avanguardie in poi. Nel genere figurativo, a mio avviso, non ci si può permettere il lusso di usare il termine a sproposito: piuttosto è necessario che la visione stessa del soggetto da dipingere sia nitida, senza mascheramenti e inganni.
Come nascono i tuoi quadri? Come prendono forma i soggetti delle tue opere?
Mi guardo intorno: talvolta non c’è bisogno di andare troppo lontano. Spesso la verità è proprio di fronte ai nostri occhi.
C’è una poetica precisa nella tua opera? Quali messaggi è possibile leggervi?
Vi si può leggere l’attenzione verso un mondo scomparso, un mondo capace di contemplare. Un gesto, quello della contemplazione, tipico del misticismo cristiano ma anche del paganesimo con i suoi miti, raccontati attraverso liriche e poemi. Una sorta di atto di fede paradossale, calato in un contesto come quello contemporaneo che non ha più il tempo e lo spazio per soffermarsi.
Che funzione ha il colore nelle tue opere? Ci puoi parlare delle tecniche di cui fai uso?
Il colore è fondamentale nella mia figurazione: ne faccio uso in funzione dell’immagine che devo dipingere. Le tavolozze rimandano al Seicento e al Barocco e per quanto riguarda le tecniche mi rifaccio ai materiali e alle prassi del passato.
Le tue opere sono parte di un percorso legato o intuizioni autonome?
Entrambe le opzioni. Alcuni soggetti sono ricorrenti e talvolta i dipinti stessi si configurano come una declinazione in più nuances della stessa tematica. Altri dipinti invece nascono già più autonomi, senza vincoli.
Quali sono i generi e i modi espressivi che preferisci?
Sono un purista: prediligo l’olio su tela o su tavola, per la profondità e la ricchezza espressiva che possono dare.
Quali sono gli artisti che maggiormente hanno influenzato il tuo lavoro?
Dire Caravaggio sarebbe scontato, ma io mi sono avvicinato a quel genere di pittura soprattutto attraverso uno dei suoi allievi preferiti, vale a dire Bartolomeo Manfredi. Sono rimasto folgorato dal suo Castigo di Cupido. Ancora Ribera, Salvator Rosa, Pontormo, Morbelli, Morelli, Mancini. Invece tra i contemporanei Antonio Lopez e Odd Nerdrum. Potrei andare avanti ad oltranza, la lista sarebbe lunghissima, ma mi fermo qui.
Che significa essere pittore oggi?
Sicuramente è un lavoro inconsueto. Sì, parlo di lavoro perché di questo si tratta per me: di una professione totalizzante (come tutte le arti), con un cuore antico, fatto di manualità e pazienza. Due qualità per le quali al giorno d’oggi non si ha mai abbastanza tempo.