Il cinema, fin dalla sua nascita, deve confrontarsi con quelli che sono il suo maggior pregio e il suo più gran difetto: il primo è la visibilità da parte di un vasto pubblico. Si potrebbe dire perfino vastissimo, sicuramente il più grande che un’arte abbia mai potuto avere a disposizione. Questo perché si bas sul visibile e sul sonoro, non serve aver studiato, non serve sapere leggere o scrivere per entrare in contatto con il cinema, basta sedersi ed essere catturati dalle immagini proiettate.
Il secondo (profondamente legato al primo) è la natura commercializzabile del cinema. L’industria ha subito preso a ben volere la settima arte, “prendendola a braccetto” (come diceva Majakovskij già nel 28’). Ciò che l’industria ha fatto al cinema è stato dargli dei codici, una grammatica, che sebbene nati anche con l’intento di limitare usi orrendi dell’immagine che risulterebbero un dolore per gli occhi dello spettatore, ne hanno tuttavia limitato le forme espressive in maniera molto rigida, oggi addirittura ridicola. Così come ridicolo è che ci siano dei manuali che decretino come sia giusto raccontare. Di fatto noi oggi al cinema ne vediamo un solo modo ovvero la narrazione, l’historia (la storiella).
La storia del cinema viene fatta non dagli intellettuali che lo teorizzano ma da quegli autori che riescono ad instaurare un particolare legame con una fetta di di pubblico, che si lega a questi anche inconsciamente.
Si pensi a Totò, John Ford, Woody Allen, Nanni Moretti (per qualcuno a malincuore) ma ce ne sono tantissimi. Il pubblico, in un primo momento, si rispecchia in questi personaggi e in un secondo gli permette di modificare, allargare, appiattire il proprio immaginario tramite le immagini filmiche.
Ergo: autori diversi per pubblici diversi. Ma cosa succede nel momento in cui esiste un solo grande pubblico, frutto di un villaggio globale pressoché uguale e perlopiù abituato a sterili tecniche espressive? Avviene che tutti i film in programmazione appaiano come un unico grande film identico a quello prima e a quello dopo. Non ci sono più personaggi che parlano a diverse fette di pubblico con i loro film, ma film tutti uguali che parlano ad un unico pubblico ormai diseducato al cinema. In questa ottica spezzare i vincoli che le regole hanno imposto e creare nuove forme (come pure già alcuni hanno tentato) che sappiano parlare in modo diverso potrebbe far rinascere un nuovo tipo di pubblico più attento, più conscio, più ispirato non solo nell’analisi del cinema ma in tutto ciò che gli gravita intorno.
Nessuno però oggi ha il coraggio di far questo. Per far si che accada bisognerebbe far nascere una controindustria che abbia la capacità di rischiare ed investire sul nuovo, sul non già visto. Oppure che dal basso un nuovo movimento prendesse forma, con nuove idee, nuove cose da dire.
Un’altra Nouvelle Vague, un altro Dogma 95. Questo, però, sarà più difficile se sempre meno spettatori saranno educati al grande schermo. Si badi che al cinema ci si educa da soli, basta guardare, basta ragionare, basta perdersi nelle immagini a cui noi diamo reale forma e significato.
Bisognerebbe, insomma, che l’arte tornasse a porsi grandi domande, ad educare la società e non il contrario, imponendo continuamente limiti. Altrimenti anche essa, prima o poi, perderà di senso se non sarà più capace di stupire, scuotere, insegnare e far riflettere.