Nella centralissima città eterna, tra i rumori del traffico e il sovrappopolamento dell’Urbe, pur avendo la percezione di rivivere le difficoltà del quotidiano descritte duemila anni fa da Giovenale nella sua Satira III, un’oasi di pace sembra avvolgere il visitatore della mostra su Van Gogh.
La mostra, prodotta da Arthemisia e ospitata all’interno del Palazzo Bonaparte (8 ottobre 2022- 26 marzo 2023), è curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti.
L’occasione dell’allestimento è data dalla prossimità dei 170 anni della nascita dell’artista (Zundert, 30 marzo 1853– Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890). Grazie a 50 opere del maestro di cui una quarantina (dipinti e disegni) confluite nella collezione di Helene Kröller-Müller e del marito Anton (conservate al Museo Kröller-Müller di Otterlo), è possibile avvicinarsi e ammirare i lavori di un pittore riscoperto solo dopo la sua morte e definito un genio indiscusso. Per gli appassionati di arte e per gli studiosi, segnalo il volume Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum realizzato dalle curatrici della mostra.
Il 31 ottobre, visitatore tra i visitatori, mi sono avventurato in questo “viaggio” straordinario tanto che, grazie alla successione delle varie tappe francesi di Vincent (Parigi, Arles, St. Remy e Auvers-Sur Oise), in alcuni momenti mi è sembrato di rivivere l’esperienza goethiana dell’Italienische Reise (Viaggio in Italia). Come in ogni viaggio che si rispetti ecco di seguito la mia narrazione.
Il percorso ha inizio dal primo piano del palazzo ove si è avvolti dal buio, misto a luci soffuse, le quali mettono in risalto le opere, tanto che, quasi per magia, sembra di vivere l’atmosfera, il mistero e l’intimità della notte mentre un video presenta ed introduce il personaggio.
Proseguendo si ha l’impressione che si tratti di una specie di itinerarium della mente e dello spirito di uno straordinario artista. Non mancano le tracce di una storia di vita segnata dal dolore e dalla sofferenza: alterazione degli stati psichici, l’esperienza dell’ospedale psichiatrico, fino all’autolesionismo con l’orecchio mozzato e il successivo suicidio con un colpo di pistola al petto. Vincent muore a soli 37 anni che corrispondono agli stessi anni in cui muoiono Raffaello, del Parmigianino, di Rimbaud, di Majakovskij, e così è accomunato a personaggi che non muoiono mai. Egli infatti scrive «Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori […]. Ah il ritratto, il ritratto che mostri i pensieri, l’anima del modello: ecco cosa credo debba vedersi». (Arles, 3 settembre 1888).
Ma la vibrazione del colore, anche grazie alla musica diffusa in sottofondo (da Chopin alla musica ambientale) che si armonizza con le atmosfere visive dell’intero percorso museale, diventa per il visitatore fremito dei vari stati d’animo e delle emozioni.
Ciò che colpisce riguardo alla struttura della mostra è la sua concezione adatta a qualsiasi fruitore. Ognuno, secondo la propria cultura e sensibilità, non solo è invitato a riflettere su ciò che osserva ma diventa partecipe attivo dell’evento. Ecco allora che non deve stupire se in alcuni momenti sembra di andare oltre al vedere con gli occhi: a parte il trasformarsi in fotografo o in lettore di didascalie, il visitatore non riesce a trattenere un certo pathos.
Il taglio è decisamente didattico: sono presenti una serie di pannelli esplicativi sulle varie fasi creative dell’artista, molte lettere sia tra Vincent e il fratello Theo che con alcuni amici e due postazioni dove stando seduti si possono seguire interessanti video riguardanti molti aspetti dell’artista olandese ed una sala (secondo piano) ove lo stesso titolo La notte stellata lascia presagire l’ingresso simbiotico in una dimensione onirica di Vincent «Spesso penso che la notte sia più viva e riccamente colorata del giorno… e guardare il cielo mi fa sognare».
Passando in rassegna le singole opere, tutte corredate da una puntuale scheda descrittiva, se da un lato si rimane incantati, dall’altro sembra essere coinvolti in un’autentica esperienza caleidoscopica ove il colore rappresenta il dominus incontrastato. Grazie al suo “pellegrinaggio artistico”, iniziato con il trasferimento a Parigi e la conseguente scoperta dell’Impressionismo, Van Gogh incontra sia i grandi artisti francesi (Monet, Renoir, Degas, i pointillistes Seurat e Signac) che il colore. Tanto è il desiderio di incontrare il colore che già alla fine del 1887 Vincent comunica alla sorella il sogno di trasferirsi nel sud della Francia (Provenza) «dove c’è ancor più colore e ancor più sole»; infatti in alcuni dei suoi lavori all’uso del pennello preferisce la spatola creando un maggior ispessimento (grumi e vari strati materici) del colore sulla tela tanto da farlo confluire in quella celebre autodefinizione «sono un grumo di sogni» (Ungaretti, Italia).
Ai primi anni olandesi risalgono le figure di uomini segnati dal lavoro e dalla fatica, ove Vincent oltre alla pietas esprime affetto e particolare attenzione come si evince da una sua lettera: «Mi sono proprio sforzato di rendere l’idea di queste persone che alla luce pallida di un lume mangiano le patate, con le stesse mani che mettono nella terrina hanno dissodato la terra e quindi il quadro parla di lavoro manuale e – del fatto che si sono guadagnati così onestamente il loro cibo. Volevo che facesse pensare a un modo di vivere del tutto differente rispetto al nostro – di persone civilizzate».
Gli anni successivi (già dal suo trasferimento a Parigi, fine febbraio del 1886) si caratterizzano per una particolare considerazione dei contrasti derivati dall’unione di alcuni colori e per il cromatismo, come accade, per esempio, in Fiori in un vaso blu (1887): qualcosa di simile accade in musica con l’inserimento di semitoni all’interno di una scala diatonica ovvero inserendo suoni alterati.
Il piano superiore della mostra si caratterizza per la presenza di opere ascrivibili agli anni 1889-’90 in cui l’artista sembra orientarsi verso una nuova emancipazione del colore amplificando talvolta la stessa realtà. Nel dipinto Il seminatore, concepito come studio, è lo stesso artista a descrivere quanto accade. Iniziando a raccontare lo schizzo (Lettera B628, Arles, martedì 19 giugno 1888) realizzato secondo quanto appreso da Charles Blanc che dettava la supremazia del disegno sul colore e soffermandosi sul bianco e sul nero, Vincent aggiunge: «Il quadro è diviso in due metà, è gialla la parte alta; il basso è viola. Ebbene i pantaloni bianchi riposano l’occhio e lo distraggono nel momento in cui il forte contrasto simultaneo del giallo e del viola lo disturberebbero ecco ciò che volevo dire».
Ma l’opinione del critico d’arte non convince Vincent tanto che nella versione finale, oltre ad alcune modifiche, sostituisce il colore dei pantaloni con il blu.
Siamo agli ultimi anni della sua vita e i titoli di alcune opere sembrano presagire il tramonto dell’uomo e dell’artista: Pini al tramonto (dicembre 1889); Il burrone (dicembre 1889); Vecchio disperato (Alle porte dell’eternità Saint Rémy, maggio 1890); Covone sotto un cielo nuvoloso (Arles, luglio 1890).
In realtà lo spirito e la ricerca del colore di Van Gogh continuano a vivere ancora. Le sue idee non solo influenzano l’arte e la cultura del Novecento ma gli autoritratti riescono a ‘sedurre’ anche compositori come Arnold Schönberg e pertanto non è casuale se il terzo dei 5 pezzi per orchestra op. 16 (1909) ha per titolo Farben (colori).
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