Quanto vale la vita dell’uomo?

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L’Editoriale

Boston «Qualsiasi vita umana è insignificante, se noi stessi non la rendiamo grande»; «Amare la vita non è strappare un fiore appena sbocciato, ma permettergli di vivere come è stato permesso a noi»; «Una vita è un atto di audacia, ma questa vita ha bisogno di radicarsi nell’amore».

Potremmo sfogliare tutta l’antologia aforistica di questo mondo; di affermazioni e definizioni date sul valore della vita ce ne sono a iosa. Sono belle – senza dubbio! -, talvolta anche molto toccanti. Ma, stando agli ultimi accadimenti che la storia sta registrando nei suoi annali, dovremmo un po’ ricrederci: tutti quanti. Nessuno escluso!

I nostri occhi vedono, oggi, il tempo della violenza e dell’orrore; le nostre orecchie odono l’urlo della devastazione che coinvolge tutti e sembra, con diversi nomi, consegnare quest’epoca alla storia come tempo di apocalissi.

Ordigni, villaggi bruciati, monache stuprate, chiese depredate, donne incinte sventrate e feti squartati, prigionieri vivi seppelliti in fosse comuni, anziani indifesi crocifissi alle porte delle proprie abitazioni, corpi oltraggiati e, chi più ne ha, più ne metta.

Sembra inconfutabile chi ritiene essere la morte l’ultima parola sulla vita. Non sembra vero, ma è così!

Di tutto questo, noi oggi siamo testimoni – il più delle volte indignati – ma incapaci di reagire. Ogni giorno, siamo spettatori di un drammatico esodo di esseri umani alla deriva. Vengono dai Sud della terra. Alcuni hanno la nostra stessa carnagione e ci rassomigliano tanto. Invadono le nostre città. Dormono sotto i ponti. Senza itinerari, senza progetti. Ce li troviamo alla stazione, nelle fiere, sotto casa: con le stuoie colme di collane invendute e con gli occhi allagati di malinconia.

Forse perché impotenti o, molto più semplicemente, perché ancora indenni, nonostante la mobilitazione collettiva che ci vede coinvolti ed operosi in prima linea nel sovvenire alle necessità delle migliaia di rifugiati in cerca di aiuto.

La nostra solidarietà, però, non può limitarsi ad espressioni puramente economiche o assistenziali: c’è bisogno anche di affetto, di dialogo, di tenerezza, di perdono, di compagnia.

È anche vero che, talvolta, ci sentiamo quasi soffocati dalle richieste di aiuto che ci giungono da quanti, ormai da tempo immemorabile, subiscono i soprusi della guerra, della prevaricazione, dell’odio.

Ma non possiamo cedere il passo alla rassegnazione!

C’è bisogno d’amore: il che non consiste nel provare grandi sentimenti ma nell’avere grande nudità e nel soffrire per amore dell’amato. Un amore che ci fa credibili nella testimonianza della carità: in questo disorientatissimo Paese che si scopre in preda a sempre nuovi egoismi e dove i poveri, i diversi, gli immigrati sono spinti sempre più ai margini; in un mondo in cui per colpa nostra, di uomini, possiamo apparire soffocati dai documenti, e rischiare di esserlo davvero.

Siamo convinti che le uniche strade degli uomini non sono quelle lucide e lineari dei concetti, quelle precise e organiche dei documenti, ma quelle polverose e misere, quelle difficili e dolorose, quelle aspre e cariche di sorprese in cui gli uomini nascono, vivono, muoiono spesso senza speranza.

Sono le strade che oggi percorrono solo i profeti e i santi, i quali ricordano con tutta la vita che, certo, siamo nati e siamo fatti per il cielo, ma gridano contemporaneamente che non siamo passanti muti e ciechi di fronte ai diritti calpestati, distratti e vili come quelli che, sulla via di Gerico, incontrando l’uomo lasciato “mezzo morto in mezzo alla strada” dai “briganti e dai rapinatori”, passano dall’altra parte, magari parlando di virtù e levando gli occhi in alto.

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