Cosa succede al bambino che a scuola ha paura dell’errore, che vive la propria inadeguatezza come un senso di colpa? Cosa accade a quel bambino quando va a recuperare le informazioni che gli servono per svolgere un compito?
Ampi studi nel campo delle neuroscienze hanno messo in luce la stretta correlazione tra i processi cognitivi e la sfera emotiva. Mente e cuore non sono separati, ma dialogano continuamente influenzando ogni atto della vita psichica, anche nei processi cognitivi.
Che vuol dire ciò? Perché è così importante che un insegnante sia consapevole di questo?
Ogni volta che un bambino apprende, accanto ai meccanismi di tipo specificatamente cognitivo, sperimenta emozioni, sprigiona cioè una vera e propria energia che va ad influenzare la memoria autobiografica, la memoria di sé. Mentre un bambino apprende, se apprende con ansia o apprende con gioia, traccia le memorie di due funzioni completamente differenti.
Quando il bambino ha paura, accade che riaffiorerà in lui il ricordo delle sensazioni già interiorizzate, rivivrà la stessa paura e la medesima frustrazione che ha già sperimentato, perchè i ricordi emotivi sono permanenti. Se da una parte cercherà di ricordare, dall’altra vorrà cancellare dalle mente quelle informazioni che rievocano in lui situazioni spiacevoli. Avverrà nella sua mente un vero e proprio corto circuito emozionale che renderà il suo apprendimento molto faticoso.
Al contrario, se il nostro bambino apprende con gioia, quando dalla memoria andrà a ripescare quell’apprendimento, riprenderà anche la sensazione di benessere che ha caratterizzato quell’esperienza. E questo lo farà star bene e lo spronerà a continuare a impegnarsi.
Scriveva Rodari: “Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?”. Ecco, non si tratta più di un’opportunità ma di una scelta obbligata.
Il benessere è una necessità e una prerogativa dell’apprendimento. Il sorriso deve entrare nelle nostre scuole e risuonare nelle nostre aule. L’entusiasmo deve soppiantare la noia, che spegne la motivazione e sottrae energia.
In poche parole, la scuola deve diventare attraente, deve appassionare, allontanando le emozioni disfunzionali che bloccano e rendono difficoltoso l’apprendimento.
Ma cosa significa una scuola con il sorriso? Significa forse una scuola facile, che renda tutti felici? Qual è il ruolo che l’insegnante deve rivestire per assolvere a questo delicato compito senza abdicare alla sua funzione di docente ed educatore?
Appare evidente che qualcosa deve cambiare nella tradizionale impostazione didattica. Il trasmettitore di conoscenze deve trasformarsi in un facilitatore di apprendimenti. Non più giudice ma aiutante. Consapevole della diversità insita in ognuno dei bambini che ha di fronte, il docente deve essere pronto a scoprire in ciascuno di essi peculiarità e talenti, a sollecitare le diverse intelligenze, ad assecondare stili cognitivi e d’apprendimento variegati.
Una bella sfida per l’insegnante, che gli impone di maturare sempre nuove competenze: psicopedagogiche, didattiche, relazionali, gestionali. Un nuovo ruolo per una nuova scuola, sicuramente più inclusiva, sicuramente più felice!