Il concerto di domenica 2 aprile (ore 21) presso il Saloncino della Pergola di Firenze, ultimo appuntamento di una ricca e bella stagione (2022/23) degli Amici della Musica di Firenze, ha rappresentato un autentico climax.
Protagonisti della serata, in primis, gli auctores presenti in un programma (‘polittico’) ben strutturato con l’alternanza tra la musica del XX secolo (Ravel/Schönberg) e quella contemporanea con una particolare attenzione, come si evince dal titolo «Ritratti/Ivan Fedele», per un compositore (nato a Lecce nel 1953, di formazione milanese) che Firenze ricorda ancora per la sua Antigone commissionatagli per l’inaugurazione del Maggio Fiorentino del 2007.
Ecco il programma:
Ravel : Chansons Madécasses
Fedele: Fuyu Hiku
Schönberg: Pierrot Lunaire (estratti)
Fedele: Maja
Presenziando con un certo orgoglio, viste le mie origini salentine, mi venivano in mente le parole di Donato Valli (studioso nativo di Tricase, scomparso nel 2017): «Ognuno di noi è in questo spazio fisico e geografico, antropologicamente inteso, ma esso è anche in noi giace nel fondo della nostra memoria». Poi dalle note di sala (curate da Fedele) e, quasi incipit dell’intero programma, si legge: «Ogni compositore affonda le radici in una propria storia, o meglio nel proprio vissuto rispetto alla storia della musica…», quasi trasposizione/osmosi di pensieri che albergano in quella humanitas in cui confluisce l’eredità culturale del passato.
L’altro protagonista era il Syntax Ensemble, formato da interpreti che condividono l’abitare il proprio tempo, e che, secondo il compositore, «sono persone di una qualità importante, appassionati e testimoni preziosi della creatività»: Valentina Coladonato (voce); Francesco D’Orazio (violino); Fernando Caida Greco (violoncello); Laura Faoro (flauto/ottavino); Marco Ignoti (clarinetto/clarinetto basso); Anna D’Errico (pianoforte); Dario Savron (percussioni) e Pasquale Corrado (direttore) il quale, oltre ad assumere il ruolo di primus inter pares, per aver studiato composizione con Fedele ed in particolare per le musiche del maestro, riusciva a restituire con raffinata intelligenza un’interpretazione più ermeneutica.
A proposito di memoria che si interseca con i pensieri (quasi ‘contrappunto alla mente’), sembrava rileggere una recensione dell’illustre critico musicale Biaggi su un concerto al Teatro della Pergola (1889) ove, lodando per l’interpretazione dell’Orfeo di Gluck il direttore d’orchestra Mugnone, sottolineava l’importanza della presenza dell’autore delle musiche «necessaria come il sole alle opere della natura [tanto che] il compositore ne è l’anima e la vita».
Venendo a noi: uno dei compositori in programma non solo era presente ma faceva da trait d’union illustrando al pubblico, prima dell’inizio del concerto e con dovizia di particolari, le musiche.
Le Chansons madécasses, (Canzoni malgasce tradotte in francese da Evariste Parny e musica di Ravel), ‘trittico’ dai sentimenti anticolonialistici in un’interpretazione translucida, aprivano il programma offrendo un colore raffinato ed essenziale visto l’organico: canto, flauto, violoncello e piano (I esecuzione: Parigi, Salle Erard, 13 giugno 1926 con un ventunenne Alfredo Casella al pianoforte). Scelta quanto mai appropriata se si considerano le interessanti peculiarità della scrittura tanto da coglierne un certo influsso nell’ indiscusso capolavoro del Novecento, il Pierrot Lunaire op. 21 di Schönberg (1912).
Seguendo una sorta di ‘consecutio temporum’ (ora rapporto dei tempi e linguaggi musicali secondo la cronologia storica), nella selezione dell’opera, (traduzione in musica delle immagini di 21 poesie di Albert Giraud tradotte in tedesco da Otto Erich Hartleben) si è apprezzata la vocalità versatile della Coladonato nell’espressivo Sprechstimme, il «canto parlato», ove si congiungono caratteristiche del suono parlato con quelle del cantato e il mutevole colore dovuto anche alle varie formazioni strumentali che intervenivano di volta in volta. Il risultato è stato, anche grazie ad una lettura ‘interiore’ della partitura, la restituzione ‘ad sensum’ di un’opera cameristica espressionista.
I titoli, rintracciabili nelle tre parti dell’opera, raccontano un Pierrot ‘instabile’ quanto il sistema compositivo tanto da poterlo individuare nella fantasia e psicologia che, per estensione, sfocia nell’ inquietudine e nella variabilità interiore dell’uomo di quegli anni. In questa specie di oggettività musicale si annida una logica strutturale che si manifesta nel più recente stile fedeliano attraverso «la forma breve, se non addirittura l’aforisma».
Ecco così svelate, nel prosieguo, alcune caratteristiche emerse durante l’esecuzione delle due opere di Fedele. Entrando più nello specifico ben si inserivano in quel fil rouge della «fascinazione esotica» e della «ricerca timbrica» della partitura di Ravel anche con il lavoro di Schönberg.
Tutto ciò era percepibile nell’esecuzione di Fuyu Haiku «antica forma poetica dell’haiku giapponese (tre versi rispettivamente di 5, 7 e 5 sillabe)» ove l’aforisma rimandava al ‘suggerimento accennato’, atto ad esplicitare il mondo poetico e inebriante del compositore.
Con Maja, su versi di Giuliano Corti (autore del libretto di Antigone) si capiva subito che si trattava di un ritorno al mito. A far ‘rivivere’ la bellezza della ninfa (figura di ‘anziana’ e dotata di grande dignitas femminile) era presente un organico più ampio: soprano, flauto, clarinetto in si bem. (anche clarinetto basso), percussione (vibrafono, gong grave), pianoforte, violino e violoncello. Ancora una volta un autentico ‘trittico’ con una scansione strutturale ben precisa che condensava il mondo sonoro dell’autore. Alla voce dall’ampia espressività si aggiungevano gli strumenti fino a percepire ed immaginare un’esuberante e caleidoscopica partitura. Lo stesso Fedele, nell’indicare «l’intima vocalità» di quest’opera, fa riferimento a Schubert quasi a voler svelare la sua attenzione alla grande tradizione del passato, eredità con la quale occorre sempre fare i conti, oltre a ‘memoria’ e ‘radici’ indicate all’inizio.
Concludo con un paragone tra l’essenza di quest’opera e l’immagine della bellezza nella Maja desnuda di Goya. Nella rappresentazione della giovane donna (probabilmente l’artista si è ispirato al passato, strizzando l’occhio a Tiziano), oltre ad emanare la propria luminosità ed apparire talmente audace e soddisfatta di ciò che è, Maja di Fedele appariva altrettanto luminosa, talmente vibrante di energia ed incantata che, per gli ascoltatori, poteva finalmente significare avvicinarsi a quelle sue «radici [e al] proprio vissuto rispetto alla storia della musica». Non escluderei neanche una sottile intenzione di Maia Laus Vitae di dannunziana memoria in cui Fedele, quasi giovane Ulisse, oltre a rappresentare colui che desidera viaggiare tra mito e realtà, è anche compositore che anela sperimentare perché assetato di conoscenza.
Mancava ancora qualcosa per concludere, nel migliore dei modi, la serata: grandi applausi dei presenti, del Syntax Ensemble e di Fedele, un autentico ‘contrappunto triplo’ e scambio ideale per una ‘polifonia’ di ovazioni ed emozioni.
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