Molti conoscono e / o ricordano la canzone dal titolo La libertà cantata da Giorgio Gaber. Il brano, registrato nel 1972, parla di democrazia attraverso la partecipazione diretta dei cittadini da quanto risulta da alcuni passi come: «la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione». Il tema è talmente affascinante ed importante che apre a diverse letture e collegamenti.
In questa occasione l’argomento si intreccia con la musica e, più in particolare, con il genere afferente alla musica da camera.
Prendendo come esempio un organico che ha fatto dell’omogeneità la sua cifra, osserviamo cosa può succedere all’interno di un quartetto d’archi con la classica formazione di due violini, viola e violoncello. Sembra di trovarsi di fronte a quattro personaggi, quasi come nei Sei personaggi in cerca d’autore, ove ognuno interpreta (racconta) la propria parte rimanendo allo stesso tempo persone comuni. Ma, a differenza dell’opera del drammaturgo siciliano, nel quartetto esiste concordanza tra musicista (attore) e persona, unitamente all’ equilibrio. In altri termini, in questa compagine musicale, attraverso la partecipazione di quattro individualità ben distinte, si realizza un esempio di società ideale.
In sostanza quattro solisti, ognuno con una personalità diversa, si predispongono alla conversazione tra persone ragionevoli.
Perché accada ciò però è necessario suonare ascoltando gli altri e non è fondamentale la presenza di un “coordinatore” come, per esempio, succede con la figura del direttore in un gruppo più grande come l’orchestra. Ora, ogni musicista può partecipare più democraticamente alla realizzazione dell’interpretazione a condizione che si rispettino le idee altrui.
Ecco allora che certi sguardi e/o alcune allusioni e ammiccamenti non sono altro che espressioni d’intesa e di complicità tra i musicisti i quali, predisponendosi alla ricerca di una vibrazione sonora condivisa, cercano di dar vita alla partitura.
Inoltre, ascoltare i suoni da un organico ridotto, principio valido per ogni tipo di formazione, è meno difficile rispetto ad una massa sonora molto grande (orchestra, banda, coro) in quanto si verifica più o meno la stessa situazione nel seguire una conversazione tra un piccolo gruppo rispetto ad un altro molto più numeroso. Tuttavia, se consideriamo che il quartetto d’archi (spesso con il raddoppio dei violoncelli all’ottava sotto dei contrabbassi) costituisce, in genere, la struttura portante della stessa orchestra, ascoltare i vari repertori con questa formazione può essere anche propedeutico per formazioni più grandi.
Per quanto detto non è difficile immaginare del perché in Italia, nella seconda metà del XIX secolo – grazie ad alcuni compositori, musicologi e cultori della musica – nascano società musicali con l’intento di promuovere i repertori cameristici e sinfonici.
Inizialmente Abramo Basevi – un personaggio eclettico che da medico passa a fare il compositore, il musicologo (fonda importanti giornali e riviste musicali) – nel 1859 fonda a Firenze le «Beethoven Matinées» e nel ’61 la Società del Quartetto, prima in Italia.
Nel 1864 troviamo l’analoga società a Milano per merito di «cultori della buona musica», tra i quali Arrigo Boito e Tito Ricordi e nel 1878, grazie a Giuseppe Martucci, anche Napoli può vantare la sua Società del Quartetto. L’effetto di queste realtà sarà di far conoscere e contribuire all’educazione i cittadini del nostro paese (compresi i giovani) ai capolavori della musica del passato ma anche di quegli anni e non è un caso se la stessa musica contemporanea si interessi ancora a questa formazione strumentale
«Penso che non esista un insieme strumentale che sia stato penetrato tanto profondamente dal pensiero musicale quanto il Quartetto d’Archi. È infatti attraverso di esso che il vascello della musica ha gettato lo scandaglio nei mari più profondi. Dopo quasi 250 anni di vita esso continua a non essere riducibile alla somma dei suoi componenti e si presenta a noi, invece, come uno “strumento” la cui dialettica fra individualità ed unanimità, fra autonomia e omogeneità, sembra porsi come paradigma di una società ideale» (Luciano Berio).