Sono passati settantasei anni dalla liberazione del campo di sterminio Auschwitz-Birkenau, ma i demoni del razzismo, del neo-fascismo e dell’antisemitismo non finiscono con la Giornata della Memoria.
L’antisemitismo continua ad aleggiare in Europa, in un clima che vede ancora molte discriminazioni e che si concretizza in attentati, insulti e atti di vandalismo.
Ed è il prof. Fabio Ciracì, docente di Storia della Filosofia e Informatica Umanistica presso l’Università del Salento, ma anche Segretario del Centro interdipartimentale di ricerca su Arthur Schopenhauer e la sua scuola, a rispondere alle nostre domande circa l’antisemitismo.
Qual è la radice etimologica della parola antisemitismo e che cosa c’è alla base dell’ostilità antisemita?
“Il termine antisemita storicamente lo si fa risalire a Wilhelm Marr, che era ovviamente un nazionalista, intorno alla fine del 1800. E l’antisemitismo nasce nel solco del nazionalismo, fa propria una tradizione di pensiero che ha una radice ancora più antica che è quella dell’antigiudaismo, con il quale non coincide totalmente. L’antisemistimo di Marr ha prospettiva aconfessionale, a differenza di di Hitler, che cercherà di colorare prima in senso cristiano e poi in senso pagano lo stesso antisemitismo. Questo da intendersi come coordinate molto grandi dal punto di vista del termine. Dal punto di vista storico, invece, antisemitismo, e antigiudaismo ancora prima, come macrocategoria dell’antiebraismo, radicano il proprio odio nel Medioevo, in luoghi comuni molto forti, come tutte le forme di razzismo, e utilizzano delle forme a priori, cercano di far leva su dei concetti scontati perché così è molto più facile infiltrarsi ed entrare nella mentalità comune. Ovviamente questo ha a che fare con le sacre scritture, con l’idea che gli ebrei siano coloro che hanno ucciso Cristo. E quindi rappresenterebbero il popolo colpevole della grande onta da un punto di vista storico.”
L’antisemitismo oggi: gli odiatori antisemiti hanno trovato il loro habitat naturale nel web. Secondo la mappa dell’intolleranza sviluppata dall’osservatorio italiano sui diritti (VOX) nel 2019 l’antisemitismo online è esploso sui social. E questa nuova ostilità antiebraica sembra essere influenzata da antiche immagini e pregiudizi radicati nella mentalità collettiva. Che cosa può dirci al riguardo? E soprattutto siamo davvero senza speranza? Secondo lei, l’odio che oggi più che mai viene diffuso quasi come se fosse un vanto, è settoriale, ideologico, politico o invece ha solo l’obiettivo di individuare bersagli di massa, ed esercitarlo con parole e azioni?
[Sorride] “Non potrei mai risponderle che siamo senza speranza, perché non potrei parlare con lei, avrei ben poco da dire, sarei rassegnato. E quindi la speranza, per quanto sia l’ultimo male come ci racconta il mito di Pandora, la utilizziamo in senso positivo.
La logica dell’odio di cui l’antisemitismo è un’espressione radicata, codificata nel tempo, con dei luoghi comuni ben precisi, con delle immagini, con delle figure stereotipate – come l’ebreo errante per dirne una -, è un fenomeno atavico, antico, radicato nel tempo, come dicevamo prima, ma non è lo stesso fenomeno di oggi.
Guardando al fenomeno da un punto di vista informatico, ovvero da come il discorso antisemita si è spostato su i social media, sebbene esistano delle narrazioni costanti che utilizzano i cosiddetti luoghi comuni, vi è però un meccanismo diverso di coagulamento delle informazioni e della loro legittimazione ideologica: se prima uno stupido diceva un’idiozia, be’, probabilmente si prendeva un rimprovero dall’anziano del nostro paese; adesso invece riesce a convincersi delle proprie idiozie attraverso il principio della conferma del pregiudizio (bias) che è tipico delle piattaforme digitali, in particolare delle piattaforme sociali, perché si costituiscono delle piccole nicchie autoreferenziali: è un meccanismo che mette capo alle “bolle di filtri” e dà vita al cosiddetto effetto eco chamber. Questa struttura dei social media si riverbera su un fenomeno che è antico, strutturandosi in una maniera nuova, ovvero è confezionato in modo tale da non essere sottoposto ad alcuna falsificazione delle tesi, di modo che alcune falsità, nuove e antiche, formano le cosiddette “post-verità”, ovvero degli “oggetti sociali”, delle credenze condivise, che hanno quasi un potere totemico, inconfutabile. Da un punto di vista filosofico, l’antisemitismo ha una sua struttura logica comune con altri forme di razzismo, pur conservando la sua specificità storica. Il razzismo è una sorta di piovra, ma si sviluppa in senso lamarckiano, cioè si adatta all’ambiente. E quindi ovviamente ha un suo contenuto storico. La specificità dell’antisemitismo, quindi, risiede negli effetti che esso ha avuto, e quindi non nella struttura, nell’utilizzo dei luoghi comuni, della genealogia, del concetto di razza, del parallelismo fisico-psichico. Quello che cambia è il peso storico che ha avuto. La Shoah ha determinato alcune scelte politiche sulla carta dei diritti dell’uomo, all’indomani del 48; ci ha fatto potentemente riflettere sulla dignità dell’uomo, ha posto l’esigenza del riconoscimento dei principi inalienabili dell’uomo.
Non credo invece, come ha già affermato Alberto Burgio, che dal punto di vista discorsivo – come struttura ideologica – l’antisemitismo abbia una sua specificità. Ha invece una sua specificità storica, un suo peso storico, ha una specificità negli effetti storici”.
Il problema dell’antisemitismo non è affatto superato. La scuola deve fare da volàno per insegnare alle nuove generazioni ideali come quelli della tolleranza, della solidarietà e della fratellanza tra popoli. Qual è la sua opinione? In questo contesto quanto sono importanti le istituzioni e quale ruolo investe la scuola?
“Le istituzioni sono fondamentali. Ma – piccola nota a piè di pagina – si dà sempre tantissima responsabilità alla scuola e questo è giusto, tuttavia bisogna pure dire che la scuola non può supplire alla responsabilità di altre istituzioni come la famiglia, di istituzioni in senso più vasto, come la politica, lo Stato. La scuola è un player fondamentale nella formazione degli studenti. Ma soprattutto per la scuola è necessaria una riconquista degli spazi pubblici, non soltanto dal punto di vista del dialogo, ma proprio delle Istituzioni.
Dobbiamo ricordare che L’Unità di Italia sulla carta è del 17 marzo del 1861. Be’, nei fatti l’hanno fatta soprattutto le scuole con il sistema pubblico nazionale, là dove si è data un’omogeneità culturale.
In realtà L’Unità di Italia si è fatta dal punto di vista culturale con grande ritardo e, potremmo dire, la si sta ancora facendo. Ed è il medesimo processo che noi stiamo attraversando con l’Europa, nel macro.
La scuola ha un significato fondamentale soprattutto perché a scuola ci vanno tutti e quello che ci insegna è il confronto continuo con le varie “classi sociali”, anche se “classe sociale” sta diventando un termine obsoleto. In relazione al razzismo, da poco è stata introdotta come materia trasversale l’educazione civica. Questo significa che l’educazione civica non è appannaggio di una sola materia: perché ha a che fare con i diritti, con lo ius, e quindi è qualcosa di molto più esteso, interessa la sfera della cittadinanza. Il senso civico lo forma la scuola, non soltanto con l’insegnamento, lo forma soprattutto con l’esempio. Questo gli insegnanti lo sanno, perché un insegnante che entra in classe svogliato, che non vuol far nulla, che dovesse nicchiare, cercare di mandare avanti la lezione senza passione e motivazione, non insegnerebbe nulla, non avrebbe nessun rispetto da parte dei ragazzi, perché non lo si può ottenere attraverso la paura o il timore. La si ottiene soprattutto con l’esempio e col rispetto delle persone. Non ci sono altri metodi, non ne conosco altri. Si è dimenticato che la scuola è una conquista ed è l’unica maniera che una persona ha per migliorarsi. La scuola non serve a incamerare delle nozioni e basta, non serve per trovare un lavoro: quello è il risultato, il prodotto. Noi studiamo per migliorarci come persone, per dare un senso alla nostra esistenza.
E c’è un altro aspetto che è molto importante, ovvero quello che la scuola sia un luogo di ritrovo: la scuola ci educa alla libertà e poi soprattutto dà l’opportunità a chiunque di potersi elevare ed emancipare, di frequentare l’università se ha la fortuna e i talenti per poterla fare. Quindi la scuola è un’opportunità sia dal punto di vista personale sia dal punto di vista sociale.
E voi ragazzi – conclude il Prof. Ciracì – dovete ritenervi molto fortunati perché è la prima volta nella storia dell’umanità da qui a seimila, settemila anni addietro, che una pandemia non interrompe l’istruzione”.