Il ritorno di Grigory Sokolov a Firenze è sempre un evento straordinario non solo per il pubblico dei concerti ma anche per molti pianisti e musicisti predisposti allo stupore. Da quel 1969, anno del suo primo concerto grazie agli Amici della Musica di Firenze, era tornato l’ultima volta nel 2022 e il concerto di cui parliamo (lunedì 13 marzo, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Sala Zubin Mehta) non casualmente è stato realizzato dalle due istituzioni musicali in coproduzione.
Diciamo subito che vedere e ascoltare Sokolov al pianoforte è un’esperienza indimenticabile. Partecipare alle sue performances è come prendere parte ad un rito. Il suo labor ricorda l’operazione di un demiurgo: un perfetto artigiano capace di ridare nuova vita alle opere, riuscendo a far emergere gradualmente da uno specchio d’acqua, grazie alle vibrazioni sonore e alla sua originale mente musicale, quelle forme, quell’espressione e tutta la poesia che solo lui e pochissimi altri sanno reperire esclusivamente nello spartito e offrire agli ascoltatori.
Un’azione talmente perfetta che alla fine del programma ufficiale il pubblico della gremitissima Sala rispondeva ‘consonantica mente’ con un’ovazione quasi da stadio, tanto da ricordare l’unanimità della commissione di cui ogni componente, nel dichiarare il nome del vincitore, pronunciava: «Sokolov, Sokolov, Sokolov…» nell’attribuire al sedicenne Grigory il I premio del concorso pianistico International Tchaikovsky Competition.
Si è immediatamente percepito il rapporto significativo e simbiotico del maestro con lo strumento, quasi un Wanderer, un autentico Errante tra i giganti della musica, proiettato verso la conquista di una logica che dal lògos sonoro volge alla Bellezza.
La locandina prevedeva una prima parte con musiche, non ascrivibili al repertorio pianistico, dell’inglese Henry Purcell, definito da Charles Burney «il vanto dell’Inghilterra per la musica come Shakespeare per il drama, Milton per la poesia epica, Locke per la metafisica, e Isaac Newton per la matematica e per la filosofia»:
Ground in Gamut in sol maggiore Z. 645;
Suite n. 2 in sol minore Z. 661;
Prelude / [Almand] / Corant / Saraband; A New Irish Tune [Lilliburlero] in sol maggiore Z. 646;
A New Scotch Tune in sol maggiore Z. 655;
[Trumpet Tune, called the Cibell] in do maggiore Z. T. 678;
Suite n. 4 in la minore Z. 663;
Prelude / Almand / Corant / Saraband; Round O in re minore Z. T. 684;
Suite n. 7 in re minore Z. 668;
Almand, very slow “Bell-bar” / Corant / Hornpipe;
Chacone in sol minore Z. T. 680
Sostanzialmente le musiche gravitavano intorno al principio della varietas sia dal punto di vista delle forme compositive, che della prassi esecutiva, del colore e, in alcuni casi, sembrava quasi di assistere ad un cambio di registri come accade con altri strumenti a tasto antecedenti al pianoforte.
Con il Ground in Gamut abbiamo ascoltato le variazioni sopra un basso ostinato (assai diffuso in Inghilterra nel ‘500 e che trovò successivamente grande sviluppo con Purcell) e anche nella conclusiva Chacone le variazioni sul basso ostinato di ciaccona (in voga nella letteratura tra XVII e XVIII secolo) hanno dominato la scena. All’interno di questa parabola stilistica c’era una parte del mondo del compositore inglese con la singolare bellezza dell’invenzione melodica, un contrappunto ed un’armonia arditi unitamente ad una raffinata interpretazione di abbellimenti e di notes inégales (importati dalla corte francese proprio da Purcell) che nell’interpretazione del pianista russo davano vita ad un autentico e finissimo intarsio.
Nella successione dei brani non poteva passare inosservato il Round O in re minore Z. T. 684 ripreso da un altro lavoro del 1695 (Abdelazer Z. 570) e ben conosciuto perché successivamente impiegato da Britten per le variazioni di The Young Person’s Guide to the Orchestra (1946). In questa prima parte, un autentico florilegium, Sokolov è riuscito ad inondare la sala di una pace e serenità interiori al punto da toccare le corde più sensibili dei presenti, rendendoli partecipi di una sorta di agàpe fraterna.
Il viaggio musicale è ripreso, nella II parte, attraversando un misterioso e pur lussureggiante mondo classico con la musica di Mozart per mezzo della Sonata n. 13 in si b maggiore K. 333 che, probabilmente, si caratterizza per prestiti e innovazioni rispetto all’insieme delle sonate composte durante il suo soggiorno parigino (1778). Nel I movimento (Allegro) il pianista traduceva in modo appropriato lo stile dell’autore che guarda a Johann Ch. Bach, nel II (Andante cantabile) la cura per ogni dettaglio dello spartito proiettava l’ascoltatore verso una profonda riflessione per poi infrangersi nel Rondò dell’ampio III movimento (Allegro giocoso) racchiudendo in nuce forma e dialettica che sfoceranno nel Concerto per pianoforte e orchestra.
Chiudeva il programma il mozartiano Adagio in si minore K. 540, opera della maturità e autentico gioiello vibrante di poesia che, per le caratteristiche della composizione e nell’interpretazione di Sokolov è stato un lungo travaglio che ha concesso una tregua all’ascoltatore solo al raggiungimento della luce finale (aprendosi alla tonalità maggiore).
Il pubblico, in estasi, non riusciva ad andarsene tanto era il desiderio di sentire ancora suonare il celebre pianista. Il generoso e fecondo interprete, ai lunghi applausi, ha risposto ricambiando con un ricco corpus di fuori programma: ben 6 autentici ‘gioielli’, quasi altro concerto.
È bastato ascoltare l’incipit dell’Intermezzo op. 117 n. 2 di Brahms (Andante non troppo e con molto espressione) per rituffarsi nel mondo di un ineffabile intimismo. Nel prosieguo di questo meraviglioso itinerarium ci è sembrato di incontrare una serie di tableaux vivants con Chopin, fino alla grande scuola pianistica russa con Skrjabin, per concludere infine con il preludio in si min. Bach-Siloti, autentico connubio tra auctoritas bachiana e inventio di Aleksandr Il’ič Ziloti (Alexander Siloti): ulteriore occasione per trasformare il silenzio di Sokolov in canto della sua mano sinistra e del suo caleidoscopico pianoforte.
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