Fino agli Anni Ottanta del Novecento in molti centri salentini era diffusa la consuetudine di associare alle feste paesane la presenza della banda musicale, un momento importante per l’ascolto dal vivo della grande musica.
In genere alla sera, al rientro della processione con il Santo di cui ricorreva la festa, la banda si esibiva per poi chiudere l’evento con i fuochi pirotecnici.
In realtà, girando tuttora per il Salento (e non solo), di bande se ne vedono ma in numero minore e fanno molta fatica ad esistere. Già in quegli anni, pian piano, i comitati delle feste e le amministrazioni cittadine si sono dovute adeguare alle nuove tendenze e gusti dei giovani e non è un caso se la canzone di Ivano Fossati (1979), «La mia banda suona il rock», diventa un gran successo.
Pur accettando il motto eraclitiano ‘tutto scorre’, soprattutto per chi ha vissuto quell’esperienza è difficile rinunciarvi. La banda ha acculturato intere generazioni, ha reso la vita più ‘colorata’ e, per chi voleva aspirare a diventare musicista, ha fornito la possibilità di vivere le prime esperienze musicali facendo parte dell’organico o, attraverso l’ascolto, ha costituito la prima educazione musicale ai grandi repertori (l’esempio più famoso è quello del m. Riccardo Muti quando a Molfetta, da bambino, ascoltava le bande durante le processioni della Settimana Santa). Oggi le bande possono rischiare, paradossalmente, di estinguersi come neve al sole, ed è molto triste. Il problema è ancora più serio in quanto mancano le alternative. Si pensi che, eccezion fatta per l’Orchestra Rai di Torino, le altre Orchestre e Cori Rai in Italia non esistono più. Dei tanti musicisti che ne facevano parte, qualcuno ha dovuto reinventarsi un altro lavoro e chi non ha potuto andare in pensione vive nello stato di disoccupazione, mentre buona parte dei nostri giovani è costretta a cercare un’occupazione in orchestre straniere.
L’universo delle bande è talmente singolare e vasto che per motivi di spazio mi è consentito aprire solo una finestra su quanto poteva accadere dal punto di vista percettivo.
Senza andare troppo indietro nel tempo, immaginiamo di essere negli anni Sessanta-Ottanta e di trovarci durante una festa in cittadine come Squinzano, Novoli o lo stesso capoluogo di provincia, Lecce. La sera, quando le persone potevano godersi un momento di relax, dopo una giornata di lavoro, vivevano un’esperienza vicina al sogno. Bastava uscire di casa e, avvicinandosi sempre più alla piazza centrale (qualcosa di simile all’Agorà della pòlis greca), si veniva travolti dalle molteplici architetture delle luminarie che, quasi come una stella cometa, conducevano alla cassarmonica. Per molti accadeva quello che, in sintesi, cantava Mina in una celebre canzone: «Una tristezza così non la sentivo da mai/Ma poi la banda arrivò e allora tutto passò [e quasi per magia] In ogni cuore la speranza spuntò» (La Banda, 1967).
Avvolto da questa luce magica, ognuno diventava un attore di quello spettacolo, annullandosi ogni distinzione di ceto sociale, ecc.
Sopra la cassarmonica si posizionava la banda secondo il medesimo criterio individuabile nell’orchestra o nel coro, con gli strumenti più gravi e/ d’accompagnamento dietro ai solisti, in particolare al gran numero dei clarinetti (i violini delle bande) che assolvevano le parti più cantabili e tematiche, posizionati nella parte antistante. Già prima dell’inizio del concerto, grazie alle luci sfavillanti, si potevano cogliere effetti caleidoscopici, con varietà di forme e colori, degli strumenti a fiato e a percussione. In base alla posizione di osservazione del pubblico era possibile notare forme, colori e particolari degli strumenti che, mediante il gioco delle luci, facevano risultare tutto magico.
Poi, finalmente, iniziava il concerto e se sul piano visivo prevaleva il colore dorato e il luccichio degli ottoni diversamente, per esempio, dal nero dei clarinetti, su quello sonoro poteva accadere di tutto. Capitando, per esempio, nella parte retrostante della cassa armonica, si potevano ascoltare i suoni più gravi, gli accompagnamenti e/o colpi dei timpani e/o la classica coppia piatti-grancassa. Tuttavia, pur non riuscendo a percepire l’insieme, a molti bastava attingere all’immaginazione e alla conoscenza dei motivi musicali per ricostruire ciò che non arrivava nitidamente all’orecchio.
Similmente a quanto accade oggi nel mondo del calcio o nei concerti rock, diversi amatori e cultori delle bande giravano per il Salento sperando di poter riascoltare famose pagine verdiane o pucciniane o le classiche marce (celeberrima la Marcia Sinfonica “a tubo”), fantasie, inni, intermezzi, sinfonie, ecc., ampliando sia la loro conoscenza dei repertori che rivivere grandi emozioni. Molti dei nostri genitori, ma soprattutto i nonni, erano in grado di cantare o fischiettare i motivi principali e/o riprodurli sullo strumento che alcuni sapevano suonare come la fisarmonica, la chitarra, il clarinetto, ecc.
Ritornando al concerto, il pubblico era sempre numeroso e soprattutto tra gli appassionati e non più giovani, c’era sempre qualcuno che preferiva portarsi la sedia da casa per non stancarsi e godersi comodamente lo spettacolo. Accadeva inoltre che, poco distanti dalla cassarmonica, fosse possibile ascoltare più comodamente la banda stando seduti ai tavolini, soprattutto d’estate, gustando una bibita, una granita o uno spumone, ma assistere vicino alla assarmonica era altra cosa.
I più attenti potevano anche distinguere il respiro dei musicisti oppure partecipare a un sommesso pianto di gruppo perché coinvolti dall’emozione scaturita da una celebre e struggente aria d’opera piuttosto che lasciarsi andare all’euforia più sfrenata quando la musica si proiettava verso sonorità particolari e/o in un crescendo di tipo rossiniano.
Infine esorto il Salento, la Puglia e l’intero Paese, terra musicale per storia e tradizione, a non far tacere le bande musicali considerando che anche l’eco più bello si spegne nel tempo.
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