Lettera a un comico

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Ridi pagliaccio, ridi, diceva mio nonno, che era nato alla fine dell’Ottocento. Ciò accadeva quando di sorpresa mi coglieva nell’atto di divertirmi mentre esperivo una sorta di spirito condividendolo con qualcuno che trovava arguta una battuta umoristica. Quando era più “generoso” definiva l’atteggiamento brioso con il termine di “pappagallesco”, come se la risata non fosse una dimostrazione di buoncostume.

A quei tempi,  dagli anni 70 in poi, occorreva reprimere l’abbandono, quale forma di liberazione dalle costrizioni che imponeva alla persona di relazionarsi in maniera fin troppo “adeguata”, per così dire, nella sua realtà sociale. Da qui era ben vista la predisposizione a “guardarsi” dalla persona che si presentava “risolta” e talvolta perfino  obbediente ai classici canoni di una dimensione inter-attiva coinvolgente! Per contrasto, invece, diciamo grazie di esistere, o comico, grazie per quello che ci offri, grazie per la lezione che ci dai! Sii tu un burattino o un pupazzo ideato ad hoc, un clown o qualcosa di affine, poiché ci rendi il bel vivere in società! Sì, perché non può esserci un sorriso non con-diviso con altri, altrimenti questa positiva manifestazione affettiva non è tale, ma diventa una triste, misera, avvilente forma  senza pathos  della condizione esistente. Il motto di spirito è un fatto sociale e presuppone il contributo di tre persone, chi crea il motto, la persona alla quale viene raccontato  da  cui la prima deve guadagnarsi complicità e assenso e la terza che rappresenta l’istituzione o la cosa , oggetto-vittima del motto. E’ indispensabile che la prima e la seconda persona debbano avere gli stessi desideri e inibizioni e riguardo la terza in sostanza per fare un esempio è il caso in cui si esclama: “Piove, governo ladro!”. Il piacere è associato ad un risparmio di energie, diretto a mantenere l’inibizione dei desideri proibiti. A differenza del dolore, asociale, essendo spesso consumato in gran parte nel silenzio o lontano dal chiasso della microsocietà, la gioia e il buonumore esistono per far risalire la china in maniera collettiva a chi ne ha abbastanza delle situazioni scontate e prive di giovialità. In parole povere è praticamente una conditio sine qua non la condivisione della felicità, altrimenti vivendola da soli si sarebbe condannati all’infelicità. Benvoluto chi è contento di svolgere una funzione altamente sociale e di grande e onorevole impatto, il comico o simile, umorista o amante del buon vivere, cara specie protetta, lungi all’estremo dal destino dell’estinzione, animate pure i cuori e riempite le coscienze, perché, come si dice, il riso fa buon sangue! E si è disposti a proposito dell’importanza della vena umoristica a scommettere ad ogni costo fino a mettere in palio la cosa più preziosa che abbiamo  e che finisce, la vita! Affrettiamoci dunque e promuoviamo il motto di spirito quale prima ed ultima regola esistenziale valida per tutti!