+ Dal Vangelo secondo Matteo (21, 28-32)
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
«Gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20, 16). Così si era concluso il Vangelo domenica scorsa. Da questa stessa logica del Regno riparte il dialogo tra Gesù e i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo. Per avere un posto nel Regno dei cieli non basta occupare delle posizioni, avere dei ruoli riconosciuti davanti agli occhi degli uomini. I titoli non sono garanzia di accesso alla vita e alla vita piena. Il ribaltamento delle logiche di conquista, di potere, di arrivismi beceri è gioco facile per il Signore.
La storia che Gesù racconta a chi si è lasciato ammaliare dalle sirene del potere è il racconto dell’equivoco più grande che attraversa la storia dell’umanità nella sua relazione con il Signore. Il problema non sono tanto le risposte che i due figli danno. Non è problema neanche il loro agire nella vigna, contrario a quanto detto a parole. La questione è il tipo di relazione che i due figli hanno con l’uomo che ha due figli e chiede loro di andare a lavorare nella vigna. Infatti, l’uomo dei due figli usa con loro una parola che scalda il cuore: “Figlio”. Usa tenerezza e amore e il comando che impartisce non è in ordine all’esercizio del suo potere, ma è indicazione del segreto di riuscita per la vita, è la consegna della rotta lungo la quale si realizza il viaggio della vita che solca vasti mari verso orizzonti di pienezza e di compimento. Le due risposte dei figli sono entrambe sbagliate. Il primo risponde da adolescente ribelle. Il secondo con l’ossequio tipico di chi davanti all’autorità vuole conservare la bella faccia, salvo poi fare di testa propria. Né l’uno né l’altro si sono ancora collocati nella giusta relazione col padre. Non si sentono figli. Non hanno compreso la vera paternità.
Al là dell’attuazione o dell’esecuzione dei lavori, il primo figlio, nonostante la reazione immediata da ribelle, è capace di ritagliarsi uno spazio ulteriore di riflessione. Non è tanto un pentimento in merito alla sua risposta scostumata. È un essersi messo in discussione rispetto alla relazione col padre. Il suo mutare parere è segno evidente di una riflessione avviata in seguito al dialogo col padre: «Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà» (Ez 18, 28. Cfr. Prima Lettura). È la grande promessa di Dio. Così è possibile sovvertire la logica umana: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”.
Non basta. Non possiamo, infatti, collocarci in maniera statica in uno dei due ragionamenti dei due figli. Può accadere che la logica di entrambi, a momenti alterni e a seconda delle situazioni e della stagioni di vita che viviamo, appartenga a noi. Possiamo essere a un tempo il primo e il secondo figlio.
Tutto sta nel collocarci nella giusta relazione col Padre. Il nostro Dio non è il Dio padrone che ordina e comanda. La paternità del nostro Dio non s’ispira a quella degli uomini, al massimo sono gli uomini chiamati a esercitare la propria paternità e maternità come riflesso di quella di Dio.
A noi il compito, arduo, di porre l’attenzione sulla tenerezza di un Dio che chiama e mi chiama col titolo più tenero: figlio, figlia. Col cuore colmo di stupore e gratitudine per tanto amore manifestato saprò interpretare i suoi comandi come indicazioni per la felicità.