Tu chiamale se vuoi… (però chiamale!)

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Emozioni: un termine che tutti quotidianamente utilizziamo ed ascoltiamo da diverse fonti, prima fra tutte i media, con i loro contenuti specifici e ancor di più con gli spot; un’industria, insomma, quella del marketing, che fonda il suo impero sulla capacità di colpire dritto all’emotivo, di sollecitare “le corde giuste” dei suoi clienti per indurli, quasi inconsapevolmente, ad acquistare quell’auto piuttosto che un’altra, a vedere quel film, a desiderare quel profumo e via dicendo.

Siamo dunque ben abituati a parlare di emozioni, eppure la quasi totalità delle persone, di fronte alla domanda “E questo come ti fa sentire?”, tende a rispondere con un generico “Male!” o “Bene!” a seconda dei casi. Ma male e bene non sono emozioni, nella loro accezione di malessere o benessere piuttosto sono stati d’animo e differiscono dalle emozioni per una serie di caratteristiche che qui non ci interessa indagare, in quanto non si tratta di una questione di terminologia, bensì di qualcosa di molto più profondo: la generalizzata incapacità delle persone di riconoscere le proprie emozioni e dar loro un nome. Ciò accade troppo frequentemente, nonostante tutti, dai bambini agli anziani, ci emozioniamo, ogni giorno e per i più svariati motivi, attraverso un processo spontaneo e non volitivo che coinvolge anche il nostro corpo (si pensi al rossore della vergogna o al sudore freddo della paura). Ora, la capacità di riconoscere le proprie emozioni è fondamentale ai fini del nostro benessere e di quello della società in cui viviamo, in quanto le persone emotivamente competenti sono   autoconsapevoli e, quindi, sono capaci di costruire relazioni stabili, comunicare in maniera efficace, gestire e non subire i conflitti, perseguire il proprio e l’altrui benessere, progettare il proprio futuro e disporre, inoltre, di molte altre abilità indispensabili ad una società che si possa definire degnamente “civile”. Un sogno? No!

Una realtà, se consideriamo come già nel 1993 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) abbia fornito nel Documento “Life skills education in school” (competenze per la vita nell’educazione scolastica) l’elenco delle competenze personali e relazionali “che portano a comportamenti positivi e di adattamento che rendono l’individuo capace  di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni”…e soprattutto dei nostri giorni! Tra queste compare la “competenza emotiva”, che include la gestione delle emozioni quale capacità imprescindibile per il benessere delle persone e che, pertanto, deve essere insegnata a partire dalla prima infanzia, in famiglia e a scuola.

Ma la nostra società non rispecchia esattamente questo prototipo di individuo emotivamente competente e capace di fronteggiare le sfide del quotidiano: al contrario, quello che vediamo, quello che siamo, è un’orda di uomini e donne di ogni età troppo frastornati dalla velocità della vita odierna, totalmente assoggettati all’imperativo del “fast” ad ogni costo, del multitasking. In questo scenario è davvero difficile immaginare di potersi soffermare sulle proprie emozioni, sui propri stati d’animo e sentimenti, di prendersi il giusto tempo per ascoltarsi e poi riflettere su quanto si sente, modulando il proprio comportamento di conseguenza e giungendo, così, ad uno stato di benessere. Invece quello che siamo e vediamo dimostra come la maggior parte di noi viva in una sorta di anestesia emozionale, in un vuoto emotivo che spinge alla ricerca di emozioni forti, vane ed effimere che immediatamente svaniscono, perché non sono stati d’animo né sentimenti, bensì emozioni e in quanto tali hanno una durata breve. In questa prospettiva vana ed insoddisfacente tale ricerca potrebbe rivelarsi infinita e spiegare, per esempio, come molte relazioni odierne abbiano una data di scadenza misurabile in base al grado di intensità delle emozioni che suscitano. Finché questo è elevato siamo innamoratissimi e ci tatuiamo anche le iniziali del partner sul cuore –e dio solo sa dove altro- e appena diminuisce, del partner non sappiamo più che farcene e per il resto… fortuna che c’è il laser!

L’individuazione delle emozioni, la nostra capacità di coglierle e di viverle in pienezza sono una questione eminentemente educativa. E’ alla radice che bisogna andare: se ancora oggi si insegna ai “maschietti” a non piangere e alle “femminucce” ad essere sempre “tranquille”, tali insegnamenti si tradurranno molto probabilmente nell’incapacità dei nostri figli e delle nostre figlie di riconoscere e vivere correttamente la propria tristezza e la propria rabbia, per esempio, e via dicendo per le altre emozioni. Poi ci mostriamo comunque basiti di fronte al dilagare di fenomeni logicamente derivati da tutto ciò come il bullismo, l’abuso di sostanze, l’aumento sconcertante dei tassi di suicidio presso gli adolescenti, l’estesa diffusione dei dca e di tutta una serie di comportamenti disfunzionali che inibiscono fortemente la piena autorealizzazione dei bambini e dei giovani, impedendo loro di giungere consapevolmente ad una vita adulta piena ed appagante. Ne conseguono futuri uomini che rasentano l’anaffettività e future donne perennemente frustrate da qualcosa che spesso non sanno spiegarsi e spiegare, interpreti di relazioni precarie da cui nascono figli dall’equilibrio emotivo altrettanto precario, che mostrano tutti i segni di quell’analfabetismo emotivo di cui sono giocoforza “portatori malsani” e che difficilmente trovano nelle altre istituzioni educative la possibilità di sopperire a queste mancanze. Subito dopo la famiglia, infatti, dovrebbe intervenire la scuola a colmare il vuoto di coscienza emotiva ed emozionale di bambini ed adolescenti, attraverso l’introduzione di specifici programmi di educazione all’affettività ed alla relazionalità. Negli ultimi vent’anni qualcosa in tal senso è stata fatta, all’estero (basti pensare alla Gran Bretagna di Tony Blair che già nel 2005 vedeva la lotta all’analfabetismo emotivo presente nei programmi ministeriali) ed anche in Italia (in varie regioni, prevalentemente del nord, molte scuole hanno già introdotto nei loro POF l’educazione emotiva presso le primarie e le secondarie), ma la strada verso l’autoconsapevolezza e la gestione del proprio universo interiore è ancora lunga e i ritmi frenetici a cui quotidianamente ci sottoponiamo di certo non aiutano.

Spesso, infatti, mettiamo volontariamente a tacere le nostre emozioni, giudicandole come un’inutile perdita di tempo, un ostacolo al raggiungimento di obiettivi “più elevati” come il successo economico o la realizzazione professionale, ignorando completamente il fatto che non le emozioni in quanto tali, bensì la nostra inadeguatezza nel gestirle possa rappresentare un vincolo alla realizzazione di questi obiettivi. Saper gestire le nostre emozioni significa in primis saperle riconoscere chiaramente, nominarle, verbalizzarle e condividerle con gli altri all’insegna di una comunicazione efficace in cui di conseguenza riusciamo a cogliere anche gli stati interni dei nostri interlocutori, migliorando nettamente la qualità della nostra vita relazionale, ma anche personale e professionale. Basti pensare all’inferno emotivo che caratterizza alcuni ambienti di lavoro –troppi, in realtà- dove rabbia, tristezza, a volte paura, ristagnano nell’aria senza riuscire a trovare il giusto canale espressivo, trasformandosi in frustrazione, delusione, odio, panico e in tutti quegli stati d’animo e sentimenti negativi che sempre l’OMS reputa responsabili anche dell’insorgere delle più comuni e spesso letali patologie psichiche, la cui età d’esordio diminuisce sempre più (alcuni studi riportano le seguenti prevalenze relative ai disturbi depressivi in età evolutiva: 0.3-1% in età prescolare, 0,4-2,5% in età scolare, 4-8,3% in adolescenza. OMS, 2004). A ciò si aggiunge l’ormai risaputa certezza che numerosi disturbi psichici come ansia, depressione, attacchi di panico, rappresentino i precursori di molte patologie fisiche come il diabete, l’ipertensione e addirittura di alcune forme tumorali e, se consideriamo che l’origine di tutto ciò possa risiedere in questa inadeguata gestione delle emozioni, è facile comprendere come essa rappresenti una vera e propria piaga sociale che non può e non deve essere ignorata.

Di fronte ai diversi eventi della nostra vita, tutti, dalla nascita in poi, proviamo le emozioni primarie (gioia, rabbia, tristezza, paura, disgusto e sorpresa) ed un’ampia gamma di emozioni secondarie che ci accompagnano lungo il nostro percorso di vita, a prescindere dalla nostra volontà. Tutti, indipendentemente dalla nostra razza, età o religione piangiamo e lo facciamo per gioia e per dolore, ma anche per rabbia o per paura; tutti ci arrabbiamo, uomini e donne, bambini e bambine e non c’è nulla di male in questo, è del tutto naturale provare rabbia. Innaturale è, invece, dover imparare a soffocare questa rabbia- che se esiste, ci sarà un perché- in nome, per esempio, di stereotipi e pregiudizi di varia natura, completamente inutili quando non lesivi. Tutti, indistintamente dobbiamo fare i conti con il variegato mondo del sentire, ma tutti lo facciamo con modalità distinte ed è in questa diversità che si esprimono le nostre competenze emotive, le nostre Skills tanto ambite dall’OMS. E’ il modo con cui gestiamo la nostra tristezza a determinare la differenza tra un difficile momento passeggero e un disturbo depressivo, così come sono le modalità attraverso cui incanaliamo la rabbia a fare di noi persone emotivamente competenti o, nella migliore delle ipotesi, protagonisti inconsapevoli di inutili scenate. Come molte altre competenze, anche quella emotiva si può apprendere e si deve “allenare”, come ogni obiettivo importante anch’essa richiede uno sforzo da parte nostra, a volte un vero e proprio salto nel buio all’interno del nostro io emotivo, questo sconosciuto. E chissà quanto avremmo da trovarci, stupiti, chissà di quanto potremmo emozionarci…semplicemente guardando in noi stessi.

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2 COMMENTI

  1. Brava, con preparazione e sensibilità hai trattatto un tema come le “emozioni”, che vigliaccamente, per pudore o per convenienza … spesso ci vergogniamo di possedere ed esternare.

  2. Un bell’articolo “competente” che non rasenta la retorica posticcia delle emozioni da raccontare nel linguaggio banale dei media nostrani. L’educabilità della sfera emotiva è quanto di più attuale e cogente oggigiorno e lo si può comprenere anche grazie a questa utile riflessione.

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