Dopo il grande successo dello spettacolo “Le Troiane, i Maschi e la Guerra” e del primo studio “La città bestiale” andato in scena l’11 e il 12 maggio scorsi, al Teatro Koreja di Lecce, progetto partecipato “Agglomerati Sentimentali Contemporanei” con la drammaturgia e regia di Marcela Serli, abbiamo il piacere di incontrarla per approfondire, in questa pur breve intervista, la sua poetica e visione della vita.
Perché ha deciso di fondare la Compagnia Teatrale Atopos?
Ho deciso di fondare la Compagnia Teatrale Atopos, perché sin dall’università il mio interesse era verso le minoranze, persino nella mia tesi di laurea me ne sono occupata. Ho intrapreso questo percorso e interesse verso la “repressione” adottata dal potere nei confronti delle minoranze e ho cercato di raccontarla attraverso l’arte, con i miei spettacoli. La prima volta che ho incontrato una persona trans, un ragazzo trans (FtoM) mi ha colpito così tanto l’ignorare completamente questo aspetto della società che ho voluto approfondire, per cercare di comprendere il loro difficile percorso di transizione. Ho capito che era ciò che volevo fare con l’arte teatrale, per me è stato esemplificativo. Per assurdo, ho trovato molta similitudine tra la vita stessa e quello che era il mio intento come artista, ovvero, quello di affermarmi in una lotta quotidiana, per il riconoscimento, ma allo stesso tempo senza alcuna paura delle categorie/non categorie, nessuna paura di essere in un caos, di voler abolire le categorie e stare in un luogo di mezzo senza nessun problema. Atopos è proprio questo, è un non luogo, come dice la stessa parola. L’ho fondata nel momento in cui nessuno si occupava di identità di genere, in Italia poi era abbastanza impensabile. Abbiamo vinto subito un premio che ci ha consentito di girare con un primo spettacolo e poi tanti altri.
Come si sfugge al potere e all’oppressione patriarcale?
Non so veramente come si sfugge a questo. Credo però sia fondamentale parlare, raccontare la verità sempre, questa è una cosa rivoluzionaria, uscire fuori dal silenzio e parlare, dire cosa fa male, quello che non si accetta, ciò che non fa stare bene. Saper dire di no, quando una cosa non si vuole più. Questa è un primo modo per fuggire dall’oppressione. Certo, non è così semplice e a volte non si può fuggire tanto facilmente da una situazione dittatoriale o di manipolazione psicologica. Nel mio caso l’arte mi ha molto aiutata anche a dare il mio punto di vista sulle cose, ad alleggerirle, perché l’arte dà un colore diverso. Persino il dramma, la tragedia sono un gioco, una struttura che permette di stare all’interno di una sintesi artistica. La scrittura drammaturgica piuttosto che la tragedia o le tante altre scritture, ci aiutano ad affrontare determinate tematiche ma non so se un giorno avremo più bisogno di parlare di questo.
Riusciremo un giorno a parlare di “persone” senza etichettarle?
Probabilmente tra qualche tempo, forse, non ci sarà neanche più il bisogno di avviare una transizione, si nascerà e ci chiameremo con il nome che abbiamo scelto e convivremo con la sessualità che desideriamo. Il femminile ed il maschile si assomiglieranno sempre più fino ad arrivare alla rottura di questo binarismo, anche causa del patriarcato degli ultimi millenni.
I miti sono ancora un buon espediente per raccontare l’orrore?
I miti sono archetipi e sono sempre utili. Nel mio ultimo spettacolo “Le troiane, i maschi e la guerra” abbiamo usato proprio questa scrittura. Euripide è il drammaturgo dal quale siamo partiti, ma anche dai personaggi realmente esistiti si possono attingere le storie. Il mito si trasforma in gioco teatrale, e ci consente di andare oltre la realtà e persino giocare con i sentimenti e con le emozioni. Questo porta alla catarsi, a quello che già gli antichi, dai tragici fino ad oggi, consideravano l’elemento fondante del teatro e che a volte, nel teatro contemporaneo, non ritroviamo. Per me è importantissimo arrivare al momento catartico, in questo arrivano i miti che sono universali, perché consentono di parlare di noi umani e non solo di una storia, di qualcuno sconosciuto che non ci appartiene e che non ci riguarda.
Che relazione c’è tra il suo “fare teatro” e il suo “agire politico”?
Nessuna relazione tra il mio fare teatro e il mio agire politico perché io faccio “teatro politico” è sempre stato così, mi muovo politicamente. Questo, tra l’altro, è l’aspetto più interessante per me della vita cittadina, della vita con gli altri, della vita comunitaria. La vita nella società è proprio la politica, dove trovo i principi del teatro vero. Perché il teatro esista ci deve essere lo/la spettatore/spettatrice e l’attore o l’attrice, e quindi già lì c’è il nucleo in questa relazione, in assenza della quale non c’è niente. Questa relazione deve essere politica, deve stare all’interno di un principio politico, è fondamentale che ciascuna persona sin dalla giovane età cominci ad acquisire una consapevolezza, a sostenerla dentro di sé e a strutturare un pensiero politico, che può modificare nel tempo, avere dei dubbi, crollare, ma senza un pensiero politico non si può cambiare il mondo, ci si scoraggia, non si va a votare e ci si convince che tanto tutti sono uguali, e quindi che non ha senso fare ascoltare la propria voce. Nulla di più sbagliato.
Cosa l’aspetta?
In uno dei miei prossimi progetti voglio parlare del futuro, della sanità del futuro, dell’immortalità. Questi sono i temi che più mi stanno toccando, poi un progetto grosso per il prossimo anno con un testo argentino che racconta il confine in un modo quasi grottesco, comico e dove faccio la regista. Per ora non posso dire molto ma preannuncio la presenza di importanti nomi del teatro italiano. Un progetto basato sul testo di Byung-Chul Han filosofo e scrittore coreano, che in uno dei suoi ultimi saggi parla della scomparsa dei riti. Vorrei partire da questo lavoro per costruire uno spettacolo che parli proprio dei riti e della catarsi.