OSS, la testimonianza di Rita: “Una professionalità senza umanità non è nulla”

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  1. Non guardarli con aria di insofferenza, per poi pensar ma sì, è il mio lavoro, pazienza. Il verso di una poesia rappresenta bene il pensiero che ha per i suoi pazienti, un’esortazione per chi fa questo lavoro a metterci il cuore o semplicemente un modo per ricordare a se stessa cosa la spinge ogni mattina ad alzarsi dal letto per “illuminare una stanza buia e piena di ragnatele ma con ricordi vivi e presenti”. Per Rita Maggio, quello dell’Operatore Socio Sanitario (OSS) è un lavoro dove l’umanità è al primo posto. Lo dimostrano le sue parole, quando le chiediamo di parlarci della sua professione. E, ancora di più, lo dimostra la sua esperienza caratterizzata da una profonda sensibilità.

“Ho cominciato questo bellissimo lavoro che io definisco ‘missione’, circa sei anni fa”. Quando le domandiamo cosa le piace di questo lavoro lei risponde: Non lo vivo come un lavoro. È mentalmente massacrante, certo, ma sono le motivazioni che ti spingono ogni mattina ad aprire le tende di una camera a quella persona che da sola non può farlo ed esordire con un: “Buongiorno, dormito bene?”, accompagnato da un sorriso ed un po’ di gentilezza che è gratis.

Le case di riposo esistono perché è difficile per un coniuge o un figlio occuparsi a tempo pieno di un anziano bisognoso di molte cure e attenzioni. La cronaca, purtroppo, ci ha fatto conoscere casi estremi in cui gli anziani venivano abbandonati e maltrattati da assistenti senza cuore, uomini e donne indifesi e costretti in un letto dalla malattia, vessati e fatti vivere in pessime condizioni igieniche.

Casi sporadici, certo, perché fortunatamente la realtà è contrassegnata anche da tantissime testimonianze di anziani e disabili accuditi, amati e rispettati come meritano e come è giusto che sia.

Per alcuni, lavorare come Operatori Socio Sanitari, ha rappresentato arrendersi all’evidenza di non trovare un’occupazione nella professione che desideravano; per altri ha significato il coronamento di un sogno. Poi c’è chi svolge questo lavoro per passione. Rita appartiene a quel gruppo di persone che fa il suo lavoro per amore verso il prossimo, con l’obiettivo del benessere totale dell’altro. Essere OSS, per Rita, è dunque prima di tutto una missione e poi un lavoro. Quando si approccia al paziente il suo saluto risuona come una benedizione nella stanza di chi la attende per le cure.

“Essere un operatore socio sanitario significa entrare in contatto con innumerevoli persone, conoscerne le storie personali, anche le più intime. Non è scontato né semplice entrare in empatia con il paziente, ancor meno con i suoi famigliari; così come non è del tutto secondaria la nostra emotività che spesso ci sovrasta e che dobbiamo imparare a gestire nell’unico interesse che è salvaguardare il benessere del paziente che è affidato alle nostre cure”. 
Parla con cognizione di causa, Rita. Sei anni sono un periodo sufficientemente lungo per poter dire quello che dice, senza tema di smentita. L’OSS si trova ad affrontare ogni giorno la parte più delicata, debole e fragile della vita di una persona: la malattia. Specialmente nel caso di persone anziane, ogni giorno ci si deve confrontare con quello che è l’unico futuro che resta loro: quello della morte. Questo induce a pensare che il lavoro dell’OSS non si riduce a mero assistenzialismo, ma coinvolge l’etica e la psiche. In tutta la loro essenza. La missione dell’OSS è proprio questa, portare positività laddove ogni speranza è veramente perduta. E questo Rita lo sa bene.
“La vita di chi fa il mio stesso lavoro non è come quella che ci viene rappresentata nelle fiction televisive, dove spesso chi indossa una divisa se la ride in medicheria in attesa che accada qualcosa. La vita di un sanitario (soprattutto di chi fa un tipo di assistenza domiciliare) è scandita da orari improbabili, notti interminabili, responsabilità, il tutto con un sorriso che deve essere carburante per il corpo e per lo spirito”.

“Consiglierei di fare il corso OSS a chi lo vuole davvero, perché non è una scelta facile – conclude – Si vedono morte, lacrime, grida e sofferenza. Si vede il lato più triste della vita e la cosa peggiore è che non si può fare nulla per cambiare certi eventi, ma si possono rendere più caldi, più amorevoli, più umani. Con il tempo, magari, potremmo vedere la signora che piangeva sempre, finalmente sorridere perché ci vede arrivare in turno. O accorgerci che quel signore, quando ci riconosce, si fa imboccare volentieri, perché sa che il pranzo diventerà una chiacchierata piacevole tra un cucchiaio e l’altro”.

Nessun dubbio quindi. Per Rita il paziente viene prima di tutto. Essere professionali, diligenti e sensibili è ciò che conta, per dare l’adeguato decoro ad una divisa troppo spesso bistrattata.