Ho conosciuto Antonio Errico, circa un anno fa, a Leverano. Di lui mi colpirono subito la semplicità, la mitezza e la freschezza del suo dire. Queste tuttavia non si tramutavano in banalità, né in opzioni semplicistiche, ma in proposizioni antiche, sagge, per chi ha molto vissuto.
Diversi, poi, sono stati gli incontri con Antonio, anche al Fondo Verri e di lui, lentamente in me, s’è formato un quadro di uno scrittore di spessore, che giudico di grande rilevanza, nel panorama salentino a noi contemporaneo e che, forse, segna la nostra terra in maniera profonda. Uno scrittore che scrive e pubblica con metodicità, ma, per molti, per chi lo conosce, è anche l’amico che sa ascoltare e condividere, che conosce i tempi della parola e del consiglio.
In Antonio Errico il piacere di scrivere è innato. Sin da bambino – oggi ha superato bene i cinquant’anni – alle elementari, aiutava i suoi compagni a comporre i temi d’italiano. Logico, ma non scontato epilogo è che, non è azzardato affermare, pubblica da sempre. Una produzione smisurata la sua, come grande è la sua fama nella nostra terra. In ogni caso, nella sua lunga carriera determinante è stato l’incontro con Antonio Verri, suo punto di riferimento spirituale e letterario, rispetto al quale egli pensa che: “Non si può immaginare il Salento senza Antonio Verri, senza considerare la sua opera ed il contributo poetico e narrativo”.
In un ultimo incontro, prendendoci uno squisito caffè, una mattina a Gallipoli dove lui dirige un Liceo, mi parlava del suo lavoro di scrittore che egli descriveva come estremamente metodico, quotidiano, assolutamente indispensabile alla sua esistenza. E mi son chiesto se ciò costituisse un vizio o un sommo piacere, al di sopra di ogni possibile attività alternativa. Il quesito si scioglie leggendo qualcosa di suo e soprattutto il suo ultimo romanzo “La Pittora dei Demoni” pubblicato con Manni.
Se la letteratura si ispira alla girandola dei sentimenti, prima ancora che alle vicende umane, Antonio Errico è colui che questa girandola la fa ruotare, è il vento che le dà il moto, mettendo in evidenza tutte le sue sfaccettature e tonalità. Antonio, infatti, scrive per immergersi nei sentimenti più disparati dell’uomo, per viverli, per assaporarli con l’anima e per condividerli con un pubblico che diventa sempre più spesso e numeroso.
Con lui si è discusso se l’autore di un racconto, di un romanzo possa andare oltre ciò che conosce, e quindi liberarsi dell’autoreferenzialità e dell’autobiograficità. La sua tesi, che peraltro mi convince solo in parte, è che uno scrittore può vivere storie e sentimenti estranei a lui per immedesimazione, proprio come fa, sotto certi aspetti, un attore di teatro.
Ed in effetti nella sua ultima produzione letteraria non trovo autobiograficità, ma un sottostante animo completo e complesso, capace di vivere più vite perché tutte le contiene e tutte le trascende. E con ciò forse è possibile imboccare una strada che sintetizzi le sue con le mie posizioni.
In molta parte della sua produzione si riconosce Antonio Errico come capace di cogliere i contrasti, le contraddizioni e i contrappunti dell’animo umano, e sommo conoscitore è delle ambivalenze dello spirito. In lui trova pacifica convivenza il caleidoscopio dei sentimenti umani, anche quelli più sconosciuti ai più, che ascendono sempre ad una ratio superiore. Ma c’è di più. Nella sua scrittura il punto fermo trova grande dignità e funzionalità espressiva: periodi brevi, i suoi, secchi e taglienti che, come una freccia nella sua semplicità, colpiscono direttamente il cuore. E tutto questo non priva la sua scrittura delle speculari metafore e di tutti gli abbellimenti retorici.
Lui, forse lo scrittore tipico salentino, ama finibus terrae, quella terra di nessuno, lì dove tutto finisce e tutto ha inizio: il crogiolo magico della vita. Ed in linea con ciò Antonio ama il Sud e ciò che è a sud del Sud, come calore, passione e possibilità di calarsi nel turbinio dei moti e dei sentimenti dell’animo. In una recente intervista afferma che già a Squinzano si trova a disagio: troppo a nord. Forse, a settentrione non c’è l’eco atavica e incantata dell’uomo nella sua pienezza.