Lecce – Una campagna elettorale impegnativa quella di quest’anno. Ognuno con grande determinazione e impegno si sta mettendo a disposizione della città, che sicuramente ha bisogno di una forte riqualificazione. Oggi la nostra attenzione si rivolge a Luca Ruberti, presidente dell’associazione Lecce Bene Comune, candidato a Sindaco per Lecce.
Quali sono i punti chiave del suo programma elettorale?
Potrei snocciolarle tutti i punti specifici elaborati in questi mesi, ma noi abbiamo scelto di impostare diversamente la nostra campagna elettorale. Mentre i nostri competitors sembravano essersi candidati all’amministrazione di un condominio, parlando di aiuole, pali, fili, parcheggi ecc., noi abbiamo avuto il coraggio di parlare di politica. A leggere i programmi degli altri sembra che Lecce sia una città avulsa da qualsiasi contesto esterno. Noi abbiamo inserito le problematiche della nostra città nel mondo e nel tempo in cui viviamo, e abbiamo avuto il coraggio di parlarne in questi termini. Abbiamo elaborato proposte che riguardano il lavoro, l’ambiente, la povertà, la salute, le migrazioni. Tutti argomenti che in una campagna elettorale comunale, abitualmente, vengono accuratamente evitati. Noi pensiamo che, tanto per rispondere alle sfide del tempo della globalizzazione economico-finanziaria quanto per liberare la città dalla cappa della “cumparanza” che la opprime, sia indispensabile ricostruire una comunità fatta di legami e relazioni forti. Ecco, è questo il nostro vero programma elettorale.
“Bene comune” è un termine che spesso viene usato, a proposito e a sproposito, in varie occasioni. È un termine che va di moda. Cosa intende lei per “bene comune”?
I beni comuni sono i beni e i servizi, entità materiali e immateriali (acqua, territorio, spazi, cultura, artigianato, turismo ecc.), che sostengono l’esercizio dei diritti fondamentali e lo sviluppo delle persone e della società. Anche la città è un bene comune. Lo spazio della città deve essere lo spazio della convivenza civile e dello sviluppo di tutta la cittadinanza. Lecce non riesce, oggi, a difendersi e a difendere i propri cittadini. Nessuna delle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi vent’anni ha mai messo al centro della propria attenzione la costruzione di una città giusta, in grado di prendersi cura delle persone più deboli e di garantire a tutti un livello adeguato di benessere. L’attuale situazione amministrativa risulta sfilacciata e singhiozzante, con interventi isolati e scollegati tra loro. Sono sfuggiti di mano i pilastri essenziali della vita urbana e, così, la città che incanta i turisti è divenuta sempre meno ospitale per i propri cittadini.
Lei ha dichiarato che “in questa città ci sono armadi che in pochi si azzardano ad aprire” in cui gli scheletri sono Alba Service e l’ex Manifattura Tabacchi. Negli ultimi anni, ben 400 famiglie sono rimaste disoccupate. In merito al caso BAT, crede sia possibile un reimpiego dei lavoratori? E cos’è il workers buyout?
Credo sia possibile, ma occorre rivoluzionare la mentalità con cui si affrontano questo tipo di problemi. Prima di tutto occorre ricordare a tutti che il compito della politica è quello di creare le condizioni affinché si possano creare posti di lavoro, non quello di offrirne. Qualunque politico si presenti travestito da supereroe, offrendovi un posto di lavoro, in realtà sta solo provando a banchettare su un bisogno drammatico. Se c’è una speranza di sopravvivere alla globalizzazione è quella di rinsaldare i legami di comunità e costruire altre vie al lavoro. Con il progetto déBAT noi, come semplice associazione, abbiamo guardato in faccia i ragazzi del Comitato Lavoratori BAT Lecce e gli abbiamo detto molto chiaramente che noi eravamo pronti a mettere le competenze di cui disponiamo al servizio di un progetto di cui loro, e solo loro, sarebbero stati i protagonisti. Il metodo che proponiamo al territorio è quello che prevede il coinvolgimento di tutte le intelligenze e le competenze di cui la comunità può disporre: dall’Università all’incredibile serbatoio di passione e competenze rappresentato dal mondo dell’associazionismo, fino a tutti i soggetti istituzionali. L’obiettivo di tutti deve essere quello di individuare strumenti e costruire insieme opportunità di lavoro. Il workers buyout è uno degli strumenti possibili. Si tratta di un modello che prevede la costituzione di cooperative di lavoratori, un modello noto in tutto il mondo come “impresa recuperata”, e che in Italia è regolato dalla legge Marcora fin dagli anni ‘80, che prevede finanziamenti ed agevolazioni per questi casi. Un modello che è già stato applicato svariate volte in Italia, ma che negli inutili tavoli istituzionali con cui si affrontano queste crisi non è mai stato preso in considerazione. Perché? Perché l’unico obiettivo, anche di quei tavoli, è mantenere i lavoratori in condizioni di subalternità alla politica. È questa la mentalità che vogliamo rivoluzionare.
Oggi come non mai ci troviamo ad affrontare una crisi sistemica e plurifattoriale (ambientale, sociale, economica, politica) e che trova la sua origine su un modello di sviluppo basato sull’egoismo, sullo sfruttamento della natura e dell’uomo; la crisi potrebbe essere risolta attraverso la promozione della sostenibilità ambientale, economica e sociale con una partecipazione attiva e solidale di tutti i cittadini. Chiaramente la politica deve dare un forte contributo, deve essere il motore. Cosa pensa a proposito?
Lo stesso discorso fatto per la BAT vale, secondo noi, per tutti gli aspetti cui fa riferimento nella sua domanda. Molti di noi, negli anni del passaggio del secolo, facevano assemblee. Scendevano in piazza. Nel migliore dei casi venivamo derisi, nel peggiore “macellati”, come alla Diaz o a Bolzaneto. Perfino quei soggetti politici che in linea puramente teorica dovevano essere più “vicini” a noi (tra tantissime virgolette), prendevano invece le distanze da noi. Perché lo facevamo? Perché avevamo studiato e approfondito quel piatto avvelenato che si stava preparando per tanti di noi, la famigerata globalizzazione. Quella che ci veniva venduta come apertura al mondo era in realtà solo una globalizzazione dei peggiori istinti predatori dei grossi squali internazionali. Purtroppo, avevamo ragione. Il caso TAP è emblematico: una valanga di soldi pubblici su un gasdotto privato che non trasporterà mai gas, che non serve a nessuno, ma solo grandi interessi finanziari e geopolitici, conditi da organizzazioni criminali. Oggi ci ritroviamo con politiche che non si accontentano neanche più dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma puntano a sfruttare la terra, l’acqua, l’aria e qualunque cosa sia sfruttabile. L’unica risposta possibile è la solidarietà attiva e il mutualismo tra chi si trova in basso di una scala sociale che è sempre più una catena alimentare. Nel nostro territorio abbiamo una quantità di associazioni e movimenti sociali che hanno la possibilità di organizzare una risposta coesa a queste dinamiche. Occorrono due cose però: la prima è che tutte queste incredibili risorse riescano a trovare il modo di fare rete; la seconda è che la politica inizia a coinvolgere queste risorse, invece di continuare ad ignorarle, quando non reprimerle con la forza, come è stato fatto fino ad ora, da tutti i livelli istituzionali.
Ci sono città in Italia, tra cui e forse unico esempio al momento, Trieste, in cui sono state introdotte all’interno dell’Amministrazione norme per la valorizzazione e promozione dell’economia solidale, a seguito di legge regionale, che fissano le modalità di svolgimento dei principi di democrazia partecipativa e di responsabilità sociale e che si impegnano a rispettare i principi di solidarietà, reciprocità, coesione sociale, cura dei beni comuni. L’introduzione di tali norme anche nell’Amministrazione leccese non potrebbe che giovare al futuro della città. Crede che ci possa essere la possibilità che tali norme siano introdotte anche nell’Amministrazione leccese e che possano avere successo come in altre città?
Questo è esattamente il nostro programma elettorale, ma non solo quello. Lecce Bene Comune ha scelto di racchiudere nel proprio nome questi princìpi perché è questa la visione intorno cui ci siamo ritrovati e che ispira il nostro agire politico. Ricordiamo, infatti, che la nostra non è una lista di quelle che durano lo spazio di una elezione, ma è una associazione nata cinque anni fa, che ha già realizzato diversi progetti e altri ne ha in cantiere, tesi proprio alla costruzione di questo tipo di cultura e azione politica. La data del 11 giugno, per quanto ci riguarda, è solo una tappa di un percorso molto lungo.
L’attuale campagna elettorale è stata fortemente scossa dalla recente vicenda giudiziaria che ha colpito l’associazione antiracket Salento e alcuni esponenti dell’attuale Amministrazione. Cosa pensa su quanto accaduto e crede che ciò possa cambiare le intenzioni di voto degli elettori?
La possibilità di incidere sulle intenzioni di voto è difficile prevederla, lo potremo verificare solo lunedì 12. Quello che penso è che, a prescindere dagli eventuali sviluppi giudiziari, la vicenda dell’associazione Antiracket Salento abbia già prodotto un danno enorme alla nostra comunità, e su questo le responsabilità politiche sono gravi ed evidenti. Noi possiamo solo immaginarlo, ma soltanto le vittime di racket possono sapere esattamente quanto coraggio serva per decidere di denunciare le estorsioni subite. Quando decide di denunciare, la vittima è pienamente consapevole dei gravi rischi cui sta esponendo se stesso e i propri famigliari. Per questo una enorme dose di coraggio, da sola, non può bastare per una scelta di questo tipo. Quello che serve è anche una fiducia totale nell’istituzione cui si sceglie di affidare la propria denuncia. È proprio questa fiducia che, da questa vicenda, ne esce inevitabilmente indebolita. Le responsabilità politiche, quindi, sono evidenti, hanno nomi e cognomi precisi, e sono pesantissime, perché rischiano di vanificare l’intera battaglia contro quella che comunque continua ad essere una piaga del nostro territorio: la lotta al racket delle estorsioni.