Si è sempre parlato di welfare senza alcuna specifica e in una sola accezione, ovvero quella del welfare state. E non si sa se questo per malafede o ignoranza. Nessuno ha mai pronunziato, almeno in ambito giornalistico negli ultimi decenni, che vi è anche il welfare aziendale, privato, di cui emblematici furono i casi Olivetti e Snia. Ad ogni modo, le due forme sono complementari e i risultati non cambiano se a pensare al welfare sia lo Stato o le imprese. Ma a questo punto, occorre chiedersi: welfare statale o welfare aziendale?
Nel corso della storia italiana, a più riprese, Stato ed aziende se ne sono fatto carico, a seconda della loro forza e disponibilità. Con riferimento alla Repubblica, fino al 1973, infatti, sono state soprattutto le aziende a curare la formazione dei soggetti intenti a lavorare, a fornire mense e ad occuparsi della loro salute, della loro previdenza. Insomma, sino a cinquanta anni fa le aziende erano il principale artefice in tema di welfare. Dagli anni ’70 ad oggi, poi, le cose sono cambiate ed è stato lo Stato che ha fatto sentire la sua posizione nella società, varando anche una legislazione sui diritti dei lavoratori. E si è passati quindi al welfare state. Questo ha significato, ovviamente la crescita esponenziale della spesa pubblica, una presenza maggiore dei sindacati ed una contrattazione tra centro e organizzazioni dei lavoratori.
Ma si può capire, con assoluta certezza, quale dei due possibili welfare riesca ad essere più efficiente? Deve essere lo Stato il solo a fornire i mezzi per il benessere, o le aziende possono fare la loro parte?
Un elemento per primo balza all’occhio: la mole di denaro che, o dalle casse pubbliche o da quelle private, deve essere impiegata. Assieme a questo, la diversificazione dei bisogni di ogni individuo e lavoratore. Bene. Lo Stato, dal canto suo, è obbligato a emanare norme generali, standardizzate, che valgano per tutti. Le aziende, invece, hanno la possibilità di diversificare i propri strumenti ed agire in maniera particolareggiata, con un’efficienza forse maggiore, riuscendo ad adattarsi al caso concreto. Lo Stato deve, quindi, fare i conti con le casse pubbliche ed il numero dei soggetti verso cui sono rivolte le sue politiche: un aspetto affatto secondario nello scenario attuale, soggetto agli effetti della crisi e del debito pubblico. Per disponibilità di cassa e staticità legislativa, di fronte alla velocità delle dinamiche del mercato, lo Stato pare arretrare dinanzi alle aziende.
Se dagli anni ’70, come si è marcato, è lo Stato ad occuparsi del welfare, oggi la tendenza sta cambiando. Infatti, diverse aziende italiane stanno iniziando, o proseguono, con un’organizzazione del lavoro per la quale esse stesse formano i loro dipendenti e se ne occupano sul posto di lavoro, secondo la possibilità che con determinate condizioni. Non pochi sono i provvedimenti di sanità integrativa, borse di studio, previdenza aggiuntiva, formazione e via dicendo. E vivendo meglio il suo ambiente di lavoro, il lavoratore riesca a produrre di più. In ciò si assistite anche ad una certa legislazione, che sebbene ancora debole, favorisce il ripristino, almeno entro certi termini, del welfare privato.
In Italia, insomma, Stato e aziende dovrebbero integrare i loro strumenti e provvedere assieme ai lavoratori. Assieme devono rispondere all’invecchiamento della popolazione e all’aumento del lavoro femminile. Se lo Stato è impossibilitato ad essere dinamico come le imprese, deve però occuparsi di quegli aspetti anche costituzionalmente riconosciuti in termini quantitativi. Le aziende, invece, dovrebbero soddisfare gli aspetti qualitativi, quei bisogni legati alla mansione dell’operaio e alla sua vita nell’ambiente in cui la sviluppa, in maniera più aderente ai mutamenti della realtà e della società.