“È veramente suggestivo e riempie l’anima di profonda ammirazione verso la Provvidenza, che con opera evidente di volontà tutto ha predisposto, il fatto che giunta l’ora della redenzione della prediletta Italia, uomini e cose fossero pronti alla grande opera. Infatti fece nascere a un tempo, un grande Re, Vittorio Emanuele…; un sommo statista: Camillo Cavour…; un ardente e geniale pensatore e cospiratore: Giuseppe Mazzini; e finalmente il Duce senza macchia e senza paura, che fu il genio della guerra, il fascinatore di uomini, l’uomo che pur nato dal fiore del popolo sarebbe stato meritevole di sedere su di un trono. In lui la natura sommò esaltandoli, tutti i più fulgidi caratteri della nostra gente: ardore e bontà, entusiasmo e carità umana, ingegno e onestà, devozione alla patria sino al sacrificio di sé. La figura di Giuseppe Garibaldi…”.
Così, nel 1929 viene introdotto il fascicolo dedicato a Garibaldi in una pubblicazione di Storia dell’Italia.
Con questa immagine, di un’Italia del Sud redenta da uomini geniali e generosi e da un eroe pressoché immacolato, si è formata per decenni la coscienza storica di generazioni di studenti nelle scuole italiane. Contestualmente, i Borboni sono stati presentati quali despoti arretrati, reazionari ed ostili a qualsiasi apertura verso il progresso, economico e culturale del Sud ed il termine “borbonico” è diventato un epiteto offensivo , sinonimo di indolente, burocraticamente complesso, inutilmente gerarchico…
Eppure, prima dell’unificazione, il Regno delle due Sicilie aveva gli ordinamenti amministrativi e finanziari più avanzati d’Italia; i maggiori illuministi del Settecento, dal Filangieri al Pagano, a Genovesi, erano stati a Napoli, vi avevano seminato le loro idee! Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie aveva circa nove milioni di abitanti, l’industria tessile e quella meccanica erano fra le più sviluppate del continente, all’Esposizione Internazionale del 1856 il Regno era stato definito il terzo Paese al mondo per lo sviluppo industriale!
È, forse, per sottolineare con forza la dignità di un così grande regno, trattato palesemente male da certa storiografia, e per correggere i tanti pregiudizi ancor radicati e diffusi in materia che Angelo Donno ci ha voluto regalare il suo romanzo ”L’ultimo re – Nel cuore del regno”, per Lupo Editore. (280 pp, 16 €).
Il romanzo racconta le vicende del Regno delle Due Sicilie nel biennio della Spedizione dei Mille. La storia prende avvio a Taviano, l’11 novembre del 1856, quando Duilio, giovane popolano artigiano del ferro, incrocia Elda Corallo, bella ed abile ricamatrice. Nel giro di due anni, i due si sposano e nel 1859 Duilio parte per Napoli, la capitale, alla ricerca di un lavoro per mantenere la famiglia, dal momento che la terra d’Otranto sta vivendo un periodo di difficoltà. A Napoli, invece, in quegli anni, c’era stato un forte incremento dei lavori pubblici e molte aziende che lavoravano il ferro cercavano manodopera specializzata. Da qui il romanzo apre alle vicende del Regno nei mesi immediatamente precedenti e poi durante la spedizione dei Mille, fino alla conclusione, dopo che Garibaldi ha conquistato la Sicilia.
In questo romanzo, perfettamente innestato nella Storia degli ultimi anni del Regno, l’autore inserisce magistralmente delle storie piccole, personali, individuali che partono da un piccolo centro della Terra d’Otranto, Taviano, e arrivano a Napoli, cuore pulsante e capitale; come una cinepresa attenta, Donno ritrae il paesino, ma anche la Corte, con il suo apparato di Ministri e Consiglieri, e la Sicilia, terra complessa e attraversata da un’anima duplice: quella fedele al suo re, dignitosa, e quella disposta a mettersi in affari con il vincitore, che sia uno Stato, come poteva essere l’Inghilterra, o un eroe temerario, come Garibaldi.
La parte centrale del libro racconta la spedizione di Garibaldi, vista con gli occhi di Alfonso, nobile napoletano fedele al Re e alla sua patria e disposto a rischiare la vita per i suoi ideali. Alfonso, infiltrato tra garibaldini che non sanno nulla del Regno che stanno andando a conquistare, viene a conoscenza dei pregiudizi e delle idee false sull’arretratezza e sulla crudeltà dei Borboni, gli stessi che spesso abbiamo letto sui libri di Storia, che a lui risultano incomprensibili, perché conosce bene il suo re ed il suo regno. E con questa tecnica narrativa, Donno ci racconta la realtà del Regno delle Due Sicilie, senza mai diventare pedante, con la partecipazione e l’empatia di un eroe che pensa alla sua patria. Al contempo, Garibaldi è presentato come uomo carismatico, capace di infiammare gli animi, di indurre i volontari a offrire la propria vita per un’azione all’apparenza disperata, giacché la disparità fra le forze di Garibaldi e quelle dei Borboni era evidente per tutti. Nel delineare Garibaldi, Donno compie un’operazione storica di estrema onestà intellettuale: nella trama del romanzo, visto in prospettiva meridionalistica, avrebbe avuto gioco facile se avesse voluto consegnarci l’immagine di un Garibaldi despota, crudele; invece, Garibaldi parla ai soldati, alle folle, combatte con loro, lo stesso Alfonso ne apprezza le doti, è a tutti gli effetti un leader.
Così non appare Francesco II, il Re. Chiuso nel suo palazzo, dove arrivano le funeste notizie della spedizione e dei successi militari dei nemici, insieme a quelle del tradimento del suo esercito(diversamente non si spiegherebbe come un manipolo di volontari possa essere sfuggito alla potente flotta borbonica e abbia potuto sbaragliare un esercito numericamente superiore, ben addestrato e adeguatamente armato). Francesco II viene presentato nella sua umanità, con le sue incertezze, i dubbi politici, al punto da confidarsi, immagina lo scrittore, con Elda, una donna del popolo, semplice ed umile. È in questo puntare sul popolo, ascoltarne la voce, un tratto di estrema modernità del re che decide, alla fine, di concedere la Costituzione, anche se ormai è tardi e la Storia è stata più veloce di lui.
Elda è la protagonista, assieme ad Alfonso, di questo romanzo che, pur raccontando la Storia, la innerva e la arricchisce di piccole, dense vicende della gente comune. Elda, una ricamatrice di Taviano, che, per la sorte inizialmente avversa, arriva a Napoli, dopo che la sua strada ha incrociato quella di Alfonso, prendendo una direzione che mai lei avrebbe immaginato.
C’è, nel romanzo, il Sud, con i suoi colori, le sue campagne, e c’è la cultura religiosa del Sud, intensa, radicata, che permea tutto il romanzo, a partire dall’apertura, con la processione in occasione della festa si San Martino, patrono di Taviano. La presenza della Chiesa ritorna in alcuni momenti cruciali della vita dei due protagonisti: Elda sognerà di abbandonare il bambino che aspetta vicino al Convento del suo paese, certa che verrà accolto; lei stessa, arrivata a Napoli, viene accolta dalle suore, che la introdurranno a Corte. Alfonso, a sua volta, trovandosi in fin di vita, cerca rifugio nel monastero dei Frati Minori Riformati, alle porte di Taviano, e l’abate, a rischio della sua stessa vita, allontana i Garibaldini che lo inseguono, invocando il diritto di asilo.
La narrazione dei grandi fatti della Storia, è intensamente partecipata, attraverso queste vicende ”secondarie”, che creano empatia nel lettore; al contempo, Donno non si esime da alcuna responsabilità storica e documenta con precisione, pur con la leggerezza del racconto, la vita del Regno, dall’abbigliamento alle carrozze, agli interni delle case, alla Corte con i suoi cerimoniali.
Il romanzo è denso di valori: la fedeltà al proprio Re e alla patria, l’amore, l’amicizia, l’ospitalità, la solidarietà con chi è in difficoltà. Bellissima, tra le tante, la figura del nobile Alberigo, il quale, arruolatosi con Garibaldi per cercare di dare un senso alla sua vita, rischierà la sua incolumità per proteggere Alfonso, per la cui causa sceglierà di battersi.
“L’ultimo re” è indubbiamente un romanzo storico, ma si legge volentieri e con interesse; la prosa è ricca e scorrevole, il linguaggio, accurato, scolpisce e modella le situazioni e i personaggi; i flashback presenti dilatano l’azione nel passato, colorandola di una velata malinconia, che accompagna la lettura di tutto il romanzo e viene anticipata dall’aggettivo presente nel titolo, giacché, nonostante l’epilogo felice della microstoria, si è alla fine di un capitolo importante della grande Storia del Regno delle Due Sicilie, che si chiude appunto con Francesco II, l’ultimo Re.