Che cos’è il perdono? Gli esseri umani sono in grado di esibire una così alta espressione di religiosità? Quando si deve perdonare e quando, invece, valutare la gravità della colpa? C’è redenzione per un pluriomicida? Dubbi questi che Massimiliano Cassone insinua profondamente con il suo ultimo lavoro, “Quattro sbarre nell’anima ” (ArgoMenti edizioni).
Martino è un condannato all’ergastolo. Nel giorno della sua laurea, in prigione, scrive una lunga lettera indirizzata alla persona per lui più importante: suo figlio. Così, attraverso una serie di flashback, racconta la propria vita e come diventa membro della Sacra Corona Unita. Le sue parole, che piovono impetuose come un temporale estivo, travolgono il lettore in maniera indelebile. Martino è un uomo forte, schivo, crudele e intelligente, ma soprattutto incattivito e avvilito da un’infanzia povera, economicamente, e dall’isolamento a cui, proprio per la sua condizione sociale, viene relegato. Sebbene indigenti, i suoi genitori, in modo particolare la madre, gli trasmettono sani valori: il lavoro, la famiglia, l’importanza dello studio, la buona educazione. Con enormi sacrifici lo mandano a scuola per offrirgli la possibilità di evolvere e ambire a un futuro a lui favorevole. Ma il desiderio di vendetta, la voglia di prendersi una rivincita su chi lo ha deriso per le scarpe rotte, i vestiti rammendati è impellente. Così, quando picchiano il fratello per colpire lui, Martino coglie l’occasione ed entra nel giro che gli facilità la sua “ascesa”. Si lascia trascinare dall’onda del successo e iniziano i suoi “anni d’oro”. Il suo nome risuona come simbolo di potere e di ferocia. È il padrone del Salento. Ha un suo preciso codice d’onore: rapine, spaccio, omicidi sì, tangenti e usura no. “La brava gente non deve mai essere toccata”. Martino sa bene cosa significhi lavorare tutta la vita, consumare il proprio corpo e l’anima per il sostentamento della famiglia. I suoi genitori, logorati anzitempo, sono il suo monito. E proprio per i loro insegnamenti s’interroga spesso sulle scelte fatte. Se non fosse stato povero sarebbe diventato tanto cattivo da “scoppiare la vita della persone come palloncini di poco valore”?
Quella di Martino è una storia di desiderio di rivalsa, di decisioni sbagliate, di orgoglio, di violenza e di tormento. È la storia di un uomo che è ben consapevole dei propri sbagli, dei reati e dei cadaveri lasciati lungo il cammino. Di tutto si attribuisce la piena responsabilità, sottolineando di meritarsi la condanna che sta scontando, non solo quella imposta dalla legge. Lui è “un fine pena mai” e “ha costruito con gli errori” la sua attuale condizione. Martino è un uomo che non ha pace, perseguitato dai “mostri” del suo passato da mafioso, dagli incubi che ogni notte gli rammentano che tipo di persona sia. Incubi che sgretolano la sua anima stringendola in una morsa tra le sbarre. La sua anima “non riesce a salvarsi, non riesce a vivere, ma muore una, dieci, mille volte al giorno, per poi rinascere con l’unico scopo di soffrire di più “. Vive ogni giorno sapendo che “il carcere non è altro che un inferno, un inferno silenzioso, dove a suonare sono la depressione e le lame di coltello che di tanto in tanto scannano qualcuno”. Inferno dal quale non uscirà mai più.
Martino è il più chiaro esempio delle varie sfaccettature dell’animo umano. Rappresenta il prototipo delle maschere pirandelliane, una, nessuna e centomila a seconda delle circostanze e di chi lo guarda. Non è né completamente cattivo, sebbene questo sia ciò che trasmette parlando di sé e descrivendo le sue attività, né pienamente buono. È un personaggio complesso e interessante. È un tipo “strano”, predilige “cinque pagine di un libro e fissare l’orizzonte”. È dolce con la sua famiglia, un capo duro e sicuro di sé con il suo clan, affettuoso, presente e altruista con chi ama, inesorabile con i suoi nemici. È legato a sua madre e al ricordo di lei e dei suoi sacrifici. Il suo cuore sembra diviso: metà puro abisso infernale e l’altra metà trasuda amore e prodigalità. Ottiene quel che vuole con qualsiasi mezzo, però viene affascinato da una ragazza ‘normale’, dolce e seria, non dedita ad alcun vizio. Lei potrebbe salvarlo da se stesso, dalla sua parte oscura, ma lui per lei è “una zavorra”.
Martino nella sua esistenza prova tutto: dolore, malinconia, povertà, ricchezza, potere, umiliazione, gioia, intensità spaventosa nel far esalare l’ultimo respiro con le proprie mani a un essere umano, guardandolo dritto negli occhi. Prova felicità. Quella felicità assoluta per cui vale la pena vivere e lottare. La felicità di un amore unico, grande, potente, l’amore per il figlio e per la madre di suo figlio. Martino ritiene l’amore solo sofferenza e sacrificio. Nella mente riecheggiano le immagini, palesi e intense, dei suoi genitori, innamorati ma tristi, piegati da un destino avverso, delusi e amareggiati per la povertà in cui sono costretti a crescere la prole, nonostante il duro lavoro e l’onestà. L’amore per Giordana e per il loro bambino lo spinge a guardare in faccia la cruda realtà. È solo allora che comprende appieno “di aver sbagliato tutto” e che è “troppo avanti rispetto a tutto”. Non può tornare indietro, né scappare. Pur morendo dentro prende l’unica decisone possibile, la migliore per tutti. Li lascia andare, lontano da lui e dalla sua vita, sporca di sangue, di errori, ma densa di tormenti.
L’accorata e spietata lettera è il suo testamento per il figlio, lo strumento per manifestarsi, per mostrarsi per quello che è un uomo con difetti ma anche tanti pregi. E allora per un uomo come Martino il perdono è possibile? C’è la speranza di una redenzione? Merita una seconda occasione? L’amore a un condannato all’ergastolo è precluso? Se razionalmente è facile condannarlo, inserirlo tra i “cattivi”, Massimiliano Cassone, con straordinaria bravura, ce lo presenta in tutto il suo essere e, umanamente, è difficile non cedere dinanzi alla metà buona del suo cuore. Ma ai lettori l’ardua sentenza!