Secondo le statistiche ufficiali, che ci indicano le tendenze generali di fondo di un fenomeno, il numero dei disoccupati in provincia di Lecce, negli ultimi 25 anni, oscilla tra le 40.000 e le 55.000 unità, a seconda della congiuntura. In termini percentuali, il tasso di disoccupazione non è stato mai più basso del 13%: un dato questo molto alto. La disoccupazione, come specificità negativa, è dunque una delle caratteristiche strutturali del nostro sistema socio-economico.
Va subito marcato che, la prima conseguenza di tale assetto riguarda le remunerazioni del lavoro, che, per effetto di una domanda sovrabbondante, si presentano sempre compresse e tendenti verso il basso. Insomma, il costo del lavoro nel leccese, qualunque sia la produttività del sistema, è strutturalmente basso e tendente al ribasso.
Ma, al di là di ciò, che dire rispetto a questa constatazione, che rattrista soprattutto molti giovani e da molte generazioni?
In linea generale, il sottoutilizzo delle risorse umane nel sistema economico della nostra provincia, oggi come nel passato, è dovuto, in maniera quasi esclusiva, all’azione dello Stato, che finanzia le attività produttive locali, legandole ad attività gestionali non strategiche per l’imprenditore, togliendo a questo ogni potere contrattuale rispetto al mercato: lo ha ridotto ad una caporale, che non può e non ha potuto incidere sullo sviluppo sia della sua impresa sia, di rimando, della società che lo ha accolto e che lo accoglie. Ma c’è di più. Lo Stato, soprattutto a partire dagli anni ’90, mette in atto una politica fiscale che drena risorse finanziare al Sud: un Sud che contribuisce più di quanto effettivamente dovrebbe. Qui basta accennare alla circostanza che, il 50% delle entrate dell’apparato statale italiano derivano da imposte regressive (IVA, accise, etc.), e cioè da imposte –peraltro incostituzionali- che gravano in maniera inversamente proporzionale al reddito. In pratica, paga più tasse chi ha i redditi più bassi. Sicché, la pressione fiscale in provincia di Lecce, che ha il reddito tra i più bassi d’Italia, è spropositata, costituendo così un freno importante allo sviluppo della nostra economia.
Ciò premesso, quale dovrebbe essere l’eventuale soluzione per la disoccupazione? Esistono rimedi? L’unica via d’uscita pare essere quella legata allo sviluppo e alla crescita dell’imprenditoria. In provincia di Lecce mancano all’appello circa 35.000 imprese, se si guardano le medie nazionali. Fare impresa è, dunque, la soluzione alla disoccupazione. Ed in tale direzione, se la burocratizzazione e la fiscalità ingiustificata dello Stato giocano un ruolo frenante, dall’altra la provincia di Lecce è una tra le più ricche del Mezzogiorno: il patrimonio medio delle famiglie leccesi, infatti, si aggira intorno ai 300.000 euro. Qui, dunque, occorrerebbe “rimboccarsi le maniche”, ed invece di fare i questuanti dei politici di turno -che paiono assolvere alle funzioni dell’Ufficio di Collocamento- inventarsi un business e mettersi in proprio e in gioco.
E tutto ciò tenuto di conto di un’avvertenza: occorre guardare al mercato in una prospettiva almeno regionale, se non proprio nazionale. Bisogna evitare il tradizionale errore dell’imprenditoria leccese, che mai ha voluto guardare oltre Squinzano, centrando tutto il suo interesse sul mercato locale.
In definitiva, occorrerebbe riscattarsi dalla mentalità che si centra sul ricevere “la salvezza” dallo Stato e dal mondo politico. E’ questo il nuovo atteggiamento mentale che andrebbe fatto circolare tra l’intellighenzia leccese, quella che tiene alla propria terra, perché ha soddisfatto le sue necessità finanziarie, di ruolo e di potere; e da qui ai cittadini, per una nuova cultura. Una cultura che veda l’uomo, il salentino al centro delle sorti economiche del suo territorio e non invece di terze istituzioni, in una logica assistenziale e del sottosviluppo.