Igino, un fantasma tra i fantasmi

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07Igino non lo conoscevo, né Marco, il figlio tragicamente scomparso qualche mese fa. Non credo di aver mai visto le figlie che vivevano con lui. Eppure ci sono situazioni che per il loro malinconico epilogo e perché arrivano a porre domande ad un’intera comunità, che non ci lasciano mai indifferenti, per quanto non ne conosciamo i protagonisti. Ci sono lutti ai quali non è concessa neppure l’intimità di un dolore, lutti che diventano collettivi.

E questo lo è. Igino è morto da fantasma tra fantasmi in una casa fantasma di un paese fantasma.

Ma davvero ci siamo ridotti a tanta solitudine? I nostalgici come me, quelli che hanno ormai vissuto ben oltre il mezzo secolo di vita, pontificano, dicendo che ai tempi delle loro mamme nessuno moriva da solo. Ai tempi dei nostri padri, infatti, un uomo non veniva mai lasciato a combattere lotte solitarie. Si poteva aver bisogno di un pezzo di pane, di un paio di scarpe usate o di un cappotto liso. O di due lire, di una pacca sulla spalla, di una manciata di carbonella per il braciere, di un po’ di prezzemolo. Si trovava tutto e subito. La solerzia era forse la prima virtù di intere generazioni che non avevano tempo da perdere. Se c’era un compaesano in difficoltà lo si aiutava, punto. Le porte delle abitazioni non avevano chiavi, in senso lato. L’umiliazione di uno era di tutti, così come le battaglie, le vittorie. E con questo non voglio dire che un tempo si era tutti buoni bravi e belli, no. Per usare un modo di dire antico ‘munnu ete e munnu è statu’, ma nessuno può negare che malgrado gli imprescindibili difetti che connotano gli esseri umani e regolano i rapporti interpersonali, qualche anno fa la solidarietà si esprimeva in modo profondo e caro.

Proviamo a chiedere ai nostri genitori, ai nonni. Ciascuno di loro potrà raccontarci tanti episodi di condivisione, molteplici casi di amici bisognosi che hanno trovato apertura e solidarietà. Ci racconteranno di quella volta che essi stessi sono stati aiutati. Era un paese di cummari e cumpari, il nostro. Poi siamo cresciuti, ci siamo civilizzati, emancipati, globalizzati, cristallizzati, fossilizzati. Abbiamo cominciato ad accantonare il valore dell’altro, abbiamo conosciuto quello della delega. Eravamo stanchi, forse, di vivere all’antica. I servizi sociali sono comparsi come la manna dal cielo. Noi eravamo già altrove. Tu fai questo, tu quest’altro, e intanto io chiudo la porta. Poi poco ci è importato se i disagi fiorivano insieme alla nostra fiducia in un sistema che incontra ancora oggi moltissime difficoltà nello svolgimento della sua missione originaria, e stigmatizza altrettante situazioni in un solco di dolore dal quale è difficile uscire.

La mia riflessione, quella che vorrei poter scambiare con voi, però, non riguarda le responsabilità di nessuno, non ricerco colpevoli, non mi compete farlo. Noi non condanniamo nessuno. La mia è solo una triste domanda, tornando alla morte di Igino e alla veglia macabra e malinconica di due figlie che continuavano a far finta di niente, impelagate in chissà quali spirali da cui non sono state capaci di uscire. Mi chiedo se davvero non ci fosse il modo di penetrare in quella casa di fantasmi, chiusa da muri di cemento invalicabili; se davvero, per quel che attiene le nostre responsabilità di figli educati da genitori che vivevano ‘con gli altri, per gli altri’, nessuno di coloro che erano a conoscenza di quel cancro che stava consumando quelle persone, ha voluto tentare di ‘sfondare’ quel muro. Se ci ha provato, o se invece, preso pietosamente atto che i giorni belli di quella famiglia che mi piace immaginare felice in una foto lontana erano ormai finiti, è passato da quella porta, l’ha vista chiusa, ha scrollato le spalle, ed è andato a casa sua, ha accarezzato i suoi bambini e si è addormentato in pace.

Mi rendo conto che a volte si è tentati di ‘tirare dritto’ perché oggi esistono parole importanti che regolano le nostre esistenze. Parole vuote, spesso comode e ipocrite. Privacy. Certo. Privacy da usare come meglio ci conviene, a seconda delle circostanze. Penso ad un altro detto antico ‘Citti citti a mienzu la chiazza’.
Oggi sui social si leggevano racconti dettagliati su questa sventurata famiglia. Molti conoscevano le due sorelle compagne di veglia funebre, le avevano viste in giro, in chiesa, al supermercato. Tutto sembrava normale, un aggettivo che oggi assume una connotazione terrificante. Tutti sembravano sapere che in quell’isolamento non ci fosse nulla di normale. Oggi, a tragedia scoperta. Troppo tardi, ancora una volta.