Arte, una parola generica per indicare ciò che l’essere umano tenta di cogliere dalla natura che lo circonda, che essa sia pittura, musica, poesia, scultura, danza, ecc. Tutti noi fin da quando veniamo al mondo osserviamo il creato per carpirne i segreti e per cogliere quella scintilla divina che dona all’artista l’impulso della creazione. Quando si crea, l’interpretazione colta dagli occhi di chi osserva, va oltre la visione dell’artista stesso, perché quell’opera, una volta finita, appartiene all’artista, ma in un certo senso viene donata all’umanità, che dà una sua visione personale al tutto.
E allora oggi vogliamo azzardare e dimostrare che l’arte non è solo di chi ci indottrina ad osservarla, ma è soprattutto di chi osserva senza essere indottrinato, di chi coglie senza limiti il gusto e il bello, senza lasciarsi trascinare da quell’interpretazione unica e singolare che il mondo ci insegna.
Prendiamo ad esempio tre quadri del grande Vincent Van Gogh, il primo è “Campo di grano con volo di corvi” (1890). Un salentino, osservando quest’opera e non conoscendo ne l’autore ne il luogo in cui fu realizzata, cosa vedrebbe? Un campo di grano tipico delle nostre campagne, con forti colori gialli che riscaldano il cuore di chi osserva, sormontato da rondini che leggiadre volano nel cielo, mosso dalla brezza dolce della nostra tramontana. Ed è come essere trasportati dal movimento stesso del dipinto, con quelle pennellate mosse che mettono in moto tutta l’opera allontanandola dalla sua staticità. In questo caso assisteremo al mutamento artisticamente inconsapevole dell’opera, dato da un osservatore che non è indottrinato dall’interpretazione cosciente del quadro, ma cerca di cogliere il bello, nato dalla spiegazione personale di ciò che osserva, senza essere condizionato dalla storia dell’opera stessa e rendendo così l’arte libera, abbandonata a quei voli pindarici che ognuno di noi dovrebbe provare osservando l’arte.
Vediamo ad esempio un altro quadro sempre dello stesso autore: “La siesta” (1889-1890). Prendiamo sempre come osservatore, il nostro salentino inconsapevole di ciò che guarda. All’occhio appare la tipica scena dei nostri contadini, che riposano nel giallo grano dopo aver consumato il pasto tipico delle nostre zone, “panino con la mortazza e Dhreker o bottiglione di vino fatto in casa”. Osserviamo come i due contadini si abbandonano a quel momento della giornata, che scandisce lentamente il tempo tra il lavoro e la “pennica”. Anche qui assistiamo a quel nuovo modo di intendere l’arte, un modo personale influenzato non da critici moderni e antichi, ma dal luogo in cui si è nati, che influenza il pensiero ultimo di chi osserva.
Il terzo quadro è: “Fattoria in Provenza”(1888). Anche qui, il nostro salentino, si rivede in quella figura, sicuramente un agricoltore che passeggia nel grano, forse raccogliendone le sue spighe mentre si dirige verso la fattoria, contento del raccolto e felice di avere dinanzi a se, quello spettacolo di casolare costruito da lui e ancor prima da suo padre, con il sudore e il sacrificio di chi ha provato sulla propria pelle la povertà del nostro Sud nei primi del ‘900. Tutto questo preambolo per dimostrare che l’arte non la si deve solo conoscere, ma la si deve anche vivere, percependo e cogliendo in lei tutti gli aspetti poiliedrici che ognuno di noi ha in se. L’arte è movimento mentale, è fantasia e come tale nasce dall’osservatore che fa sua l’opera diventandone così un tutt’uno. Così, anche un salentino con una certa base culturale artistica, guardando queste tre opere, rivedrà sempre e comunque casa.