Dal mare di San Cataldo, in latino Salapìa, marina storica (quanto demodè) dei leccesi, emergono le romantiche rovine dell’antico porto romano di Lecce, costruito dall’Imperatore Adriano, che regnò dopo Traiano, rivelando un carattere mite e tollerante, che propendeva a patrocinare arte e cultura; nonché, opere grandiose.
Questo baluardo ancora visibile nei pressi del faro di San Cataldo viene citato da Pausania, scrittore, viaggiatore e geografo greco del II secolo d.C., il quale riferisce che qui sia sbarcato Ottaviano, saputo della morte di Cesare, visto che questo era un sito strategico, di scalo e rifornimento, a metà strada fra le città portuali di Brindisi e Otranto.
I resti del porto si inoltrano in mare per circa 150 metri; però, la parte centrale sotto la violenza delle mareggiate sta man mano scomparendo, quasi come il ricordo di un amore, che un tempo era un sentimento potente e che ormai è sommerso da più forti pulsioni…
Ai primi del ‘900 si tentò di riportare la struttura agli antichi splendori, prolungando il molo; il manufatto fu, però, successivamente abbattuto a causa dell’insabbiamento del porto. Si rinvengono ancora, tuttavia, barre di ferro e sistemi di fissaggio del molo, costituiti da grappe a doppia T e a Õ , chiari esempi di antichissima ingegneria.
Sul Molo di Adriano, che nelle notti di plenilunio si staglia nitido a guardia e riparo dei lidi dirimpettai, aleggia una romantica dicerìa, secondo cui una bionda signora leccese, affranta per la misteriosa scomparsa in mare di un amico carissimo, il cui corpo non fu mai ritrovato, si rechi piangente al Molo nella notte del 13 giugno, per pregare e lanciare in mare una rosa rossa, in memoria appunto del suo mai dimenticato amico Antonio…